98.
Ottobre 2007
Roy era seduto con Pat e Dennis a un tavolo di legno nella zona ristorante dell’enorme open space della Chelsea Brewing Company, di proprietà del cugino di Pat. Alla sua destra c’era un lungo bancone di legno massiccio, e alle sue spalle file e file di scintillanti contenitori di rame alti fino al soffitto, e chilometri di tubazioni di acciaio inossidabile e alluminio. Con gli immensi pavimenti di legno e la pulizia immacolata, sembrava più un museo che un birrificio in piena attività.
La visita era diventata una sorta di rituale, una sosta obbligatoria in ogni viaggio che Roy faceva a New York. Pat era chiaramente orgoglioso del successo di suo cugino e godeva nel dare a un inglese un assaggio della migliore birra prodotta negli Stati Uniti.
Ce n’erano sei differenti varietà nei bicchieri di fronte a ciascuno dei tre agenti di polizia. I bicchieri erano posizionati su un cerchietto azzurro stampato su una tovaglietta che elencava i nomi di ogni birra. Il cugino di Pat, che a sua volta si chiamava Patrick – un uomo tozzo con gli occhiali poco oltre la quarantina – stava raccontando a Roy i vari stadi di lavorazione di ogni tipo di birra.
Roy lo ascoltava solo a metà. Era stanco: era tardi, stando al fuso inglese. Quel giorno non aveva portato a nulla, solo un buco nell’acqua dopo l’altro. A parte l’acquisto di alcune Bratz dall’aspetto un po’ troppo adulto per la sua figlioccia. Ai suoi occhi, quelle bambole parevano delle Barbie diventate professioniste del mercato del sesso a pagamento. Ma, rifletteva Roy, che cosa ne sapeva lui dei gusti delle bambine di nove anni?
Il direttore del W aveva aggiunto ben poco a ciò che Grace già sapeva, se non – per quello che poteva valere – che alle undici della sua ultima sera all’albergo Ronnie aveva guardato un film porno alla tv via cavo.
E nessuno dei sette commercianti di francobolli che erano andati a trovare quel pomeriggio aveva riconosciuto Ronnie Wilson, né per nome, né in fotografia.
Mentre il cugino di Pat intonava la sua litania sulla scienza che stava dietro alla birra preferita di Roy, la Checker Cab Blonde Ale, Grace fissava il buio della sera oltre le finestre. Poteva vedere le sagome degli yacht ormeggiati alla marina e più oltre, al di là della macchia scura del fiume Hudson, le luci del New Jersey. Era così enorme, quella città. Così tanta gente che andava e veniva. Vivi qui, come in ogni grande città, e vedrai migliaia di facce ogni giorno, pensava Roy. Quante probabilità c’erano di riuscire a trovare qualcuno che ne ricordasse una intravista sei anni prima?
Ma doveva tentare. Bussare alle porte. Il vecchio metodo della polizia. Le possibilità che Ronnie fosse ancora nei paraggi erano praticamente nulle. Più probabilmente si trovava in Australia – gli ultimi indizi sembravano indicarlo. Tentò di fare un rapido calcolo mentale dei fusi orari mentre Patrick passava a spiegargli come si otteneva il delicato retrogusto di caramello della Sunset Red Ale.
Erano le sette della sera, Melbourne era dieci ore avanti rispetto al Regno Unito, quindi a quanti fusi era da New York, che era cinque ore avanti – no – indietro rispetto all’Inghilterra? Cristo, quel calcolo gli stava facendo girare la testa.
E per tutto il tempo continuò ad annuire educatamente all’indirizzo di Patrick.
Era quindici ore avanti, concluse. Tarda mattinata. La speranza era che, prima della visita di Norman e Nick, la polizia di Melbourne avesse già cominciato a controllare se Ronnie Wilson fosse entrato in territorio australiano dopo il settembre del 2001.
C’era anche qualcos’altro, ricordò improvvisamente, estraendo quasi di nascosto il suo taccuino e sfogliando un paio di pagine fino a trovare gli appunti che aveva preso durante il suo incontro con Terry Biglow: la lista di amici e conoscenti di Ronnie Wilson. Chad Skeggs, aveva scritto. Emigrato in Aus. Visto quanto gli aveva detto Branson, e le probabilità che Ronnie Wilson si trovasse in Australia, avrebbe avvertito Potting e Nichol di dedicarsi alle ricerche di Chad Skeggs con priorità assoluta.
Patrick finalmente terminò la conferenza e andò a prendere personalmente a Roy il suo boccale di Checker Cab. I tre detective alzarono i bicchieri.
“Grazie per il vostro tempo, ragazzi, lo apprezzo molto”, disse Grace. “E offro io.”
“Sei da mio cugino”, disse Pat. “Non sborsi un centesimo.”
“Quando sei da noi a New York, sei nostro ospite”, aggiunse Dennis. “Ma merda, amico, quando sarà il nostro turno in Inghilterra, ti conviene accendere un altro mutuo!”
Risero.
Poi Pat si intristì all’improvviso. “Sai, ti ho mai detto quella cosa sull’undici settembre, a proposito dei cani di conforto?”
Grace scosse la testa.
“C’era della gente che portava i cani – al cumulo di macerie, sai, nel Ventre della Bestia. Semplicemente perché chi lavorava lì potesse accarezzarli.”
Dennis annuì, assentendo. “Era così che li chiamavano – cani di conforto.”
“Una forma di terapia”, continuò Pat. “Scavare tra i detriti era un’esperienza traumatica, così quelli hanno pensato, se accarezzano i cani, è una bella sensazione, un contatto con qualcosa di vivo, qualcosa di giocoso, sereno.”
“Sai, credo che abbia funzionato”, disse Dennis. “Tutta la faccenda, l’undici settembre, sai, ha fatto un sacco di bene alla gente di questa città.”
“E ha fatto venire a galla anche la feccia”, gli ricordò Pat. “Al Molo Novantadue davamo soldi, tra i millecinquecento dollari e i duemila e cinquecento, a seconda della necessità, alla gente che ne aveva bisogno.” Si strinse nelle spalle. “Non ci è voluto molto perché gli sciacalli lo venissero a sapere e si presentassero in massa, a raccontare di avere perso dei familiari per intascarsi il denaro.”
“Ma li abbiamo beccati”, disse Dennis con truce soddisfazione. “Dopo li abbiamo beccati. Ci abbiamo impiegato un po’, ma li abbiamo presi tutti, fino all’ultimo.”
“Ma ne è anche venuto fuori qualcosa di buono”, disse Pat. “Quell’esperienza ha ridato un po’ di cuore e di anima a questa città. Credo che la gente, qui, adesso sia un po’ più gentile.”
“E un bel po’ di gente è molto più ricca”, disse Dennis.
Pat annuì. “Questo è poco ma sicuro.”
Dennis ridacchiò all’improvviso. “Rachel, mia moglie, ha uno zio nel Garment District. Ha una ditta di ricami e di stampe, lavora per i negozi di souvenir. Un paio di settimane dopo l’undici settembre sono andato a trovarlo. Lui è un piccoletto ebreo, ha ottantadue anni e lavora ancora quattordici ore al giorno. Il tipo più gentile che si possa incontrare. La sua famiglia è scampata all’Olocausto ed è venuta qui. È sempre pronto a dare una mano a chiunque. Comunque sia, entro nel suo negozio e non l’avevo mai visto così affollato, pieno di attività. Operai dappertutto. Magliette, felpe, berretti da baseball – tutto impilato; gente che cuciva, stirava, cuciva a macchina, imbustava.”
Sorseggiò un po’ di birra e scosse la testa.
“Lo zio aveva dovuto assumere personale extra. Non riusciva a far fronte agli ordinativi. Tutto materiale commemorativo delle Torri Gemelle. Gli ho chiesto come stava andando. Lui era seduto lì, in mezzo a tutto quel caos, mi ha guardato con un sorrisetto e mi ha detto che gli affari andavano bene, che non erano mai andati meglio.” Dennis annuì, poi scrollò le spalle amaramente. “Sai una cosa? C’è sempre da guadagnare qualcosa, nella tragedia.”