25.

Ottobre 2007

Roy Grace, nonostante l’aiuto di un riflettore alogeno, stava ancora faticando per riuscire a vedere il minuscolo oggetto che Frazer Theobald teneva fermo con le sue pinzette d’acciaio. Tutto ciò che riusciva a vedere era qualcosa di azzurro e indistinto.

Strinse le palpebre, riluttante ad ammettere con se stesso che stava arrivando il momento di iniziare a usare gli occhiali. Fu solo quando il patologo mise un piccolo quadratino di carta dietro le pinzette e gli passò una lente di ingrandimento che Roy riuscì a vedere più chiaramente il reperto. Era una fibra di qualche tipo, più sottile di un capello umano, simile al filo di una ragnatela. Un attimo sembrava trasparente, e subito dopo azzurro chiaro. Le estremità sobbalzavano per l’azione combinata di un leggerissimo tremore nelle mani di Theobald e della brezza gelida che soffiava nel canale di scolo.

“Chiunque abbia ucciso questa donna ha fatto del suo meglio per non lasciare tracce”, disse il patologo. “La mia ipotesi è che l’abbia messa quaggiù convinto che prima o poi il corpo sarebbe stato trascinato via dall’acqua del sistema fognario e scaricato in mare – pensando che una distanza dalla riva sufficiente per i rifiuti sarebbe bastata anche per un cadavere.”

Grace fissò di nuovo lo scheletro, incapace di togliersi dalla mente l’idea che potesse trattarsi di Sandy.

“Forse l’assassino non ha pensato che questo tratto non si sarebbe allagato”, continuò Theobald. “Non aveva previsto che il corpo potesse restare intrappolato nei detriti e che, vista la scarsità di pioggia, il flusso del sistema fognario non avesse la forza di disincagliarlo. O forse questo canale è andato in disuso.”

Grace annuì, guardando ancora la minuscola fibra.

“È il filo di un tappeto, secondo me. Potrei anche sbagliarmi, ma credo che le analisi di laboratorio confermeranno che è la fibra di un tappeto o di una moquette. Troppo dura per essere di un maglione o di una gonna o della federa di un cuscino. È di un tappeto.”

Joan Major fece un cenno di assenso.

“Dove l’avete trovata?” domandò Grace.

Il medico legale gli indicò la mano destra dello scheletro, che era parzialmente sepolta nei sedimenti. Le dita erano esposte. Indicò l’estremità del dito medio. “Vedi quella? È un’unghia artificiale – di quelle che si comprano nei negozi specializzati.”

Grace si sentì attraversare da un brivido gelido. Sandy si mangiava le unghie. Quando guardavano la televisione se le rosicchiava, emettendo i piccoli suoni ritmici di un criceto. Lo faceva impazzire. E a volte lo faceva anche a letto. Spesso, mentre lui cercava di prendere sonno, lei si mangiava le unghie, distrattamente, come se stesse riflettendo su qualcosa che non voleva o non poteva condividere con lui. Poi, d’un tratto, si guardava le unghie e si arrabbiava con se stessa, gli diceva che doveva avvertirla quando lo stava facendo, per aiutarla a smettere. E poi andava dalla manicure a farsi applicare costose unghie artificiali sopra quelle smangiucchiate.

“Un composto di plastica, incollato all’unghia sottostante. Per qualche ragione le unghie non sono state portate via dall’acqua quando la carne sottostante si è decomposta”, disse Frazer Theobald. “La fibra era sotto l’unghia del medio. Può essere che chi l’ha uccisa l’abbia trascinata su un tappeto o su una moquette e lei ci abbia conficcato le unghie. È la spiegazione più probabile di come quella fibra sia finita lì. Siamo stati davvero fortunati che la corrente non l’abbia portata via.”

“Fortunati, già”, disse Grace, distante. La sua mente stava lavorando frenetica. Trascinata su un tappeto. Una fibra azzurra. Azzurro-chiaro. Azzurro-cielo.

C’era un tappeto azzurro, a casa. In camera da letto. La camera da letto che lui e Sandy avevano condiviso fino alla sera in cui era scomparsa.

Nel nulla.

Doppia identità
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