44.
11 settembre 2001
Ronnie rimase sotto il sole, sul lungomare deserto, e controllò ancora una volta che il cellulare fosse spento. Decisamente spento. Guardò davanti a sé, oltre le panchine e la staccionata che delimitava la spiaggia, oltre la distesa deserta di sabbia dorata e oltre l’oceano increspato, e vide la colonna di fumo nero, grigio e rossastro che si levava alta nel cielo, dandogli un colore di ruggine.
Ma era come se non la vedesse. Si era appena reso conto di aver lasciato il passaporto nella cassaforte della camera d’albergo. Ma forse la cosa poteva tornargli utile. Stava pensando. Pensava, pensava, pensava. La sua mente era sommersa dai pensieri. Doveva riuscire a schiarirsi le idee, in qualche modo. Forse un po’ di esercizio fisico. Oppure un bicchiere di qualcosa di forte.
Alla sua sinistra, la passerella in legno del lungomare si estendeva a perdita d’occhio. In lontananza, alla sua destra, riusciva a distinguere le sagome delle giostre del luna park di Coney Island. Più vicino, la palazzina malandata di un condominio, con i sei piani coperti da impalcature. Un tipo di colore con un giubbotto di pelle stava discutendo con un orientale che indossava un bomber. Continuavano a voltarsi, come per controllare di non essere osservati, e continuavano a guardarlo. Forse stavano concludendo un affare di droga e lo avevano preso per uno sbirro. Forse stavano parlando di football, di baseball o del tempo, lui che cazzo ne sapeva. Forse erano le uniche persone su tutto il cazzo di pianeta a non sapere che cosa era successo quella mattina al World Trade Center.
A Ronnie non fregava un cazzo di quei due. Finché non lo rapinavano, per lui potevano restarsene lì tutto il giorno a parlare. Potevano restare lì fino alla fine del mondo, che poteva anche arrivare molto presto, a giudicare dagli eventi di quel giorno.
Merda. Cazzo. Che giornata. Che cazzo di giornata da scegliere per trovarsi a New York. E non aveva nemmeno il numero di cellulare di Donald Hatcook.
E tuttavia... Tentò di scacciare quel pensiero, ma continuava a bussare alla porta della sua mente, e bussava, e bussava finché lui non fu costretto ad aprirgli e a farlo entrare.
Donald Hatcook poteva essere morto.
Un sacco di gente poteva essere morta, cazzo.
C’era una fila di negozi, tutti con insegne in russo, alla sua destra, a costeggiare il lungomare. Si incamminò da quella parte, tirandosi dietro le sue borse, e si fermò davanti a un grosso cartello stradale, sopra una di quelle mappe VOI SIETE QUI!, in una cornice di metallo verde.
Il cartello recitava:
RIEGELMANN WALKWAY. BRIGHTON BEACH. BRIGHTON 2ND STREET.
A dispetto di tutto ciò che stava succedendo nella sua mente, si fermò e sorrise stancamente. Casa dolce casa. Si fa per dire. Sarebbe stato divertente farsi fotografare accanto a quel cartello. Lorraine avrebbe sorriso. Magari un’altra volta, in circostanze diverse.
Si sedette sulla panchina accanto al cartello e si appoggiò allo schienale. Si sciolse la cravatta, la ripiegò e se la mise in tasca. Poi slacciò il primo bottone della camicia. L’aria era fresca sul collo. Ne aveva bisogno. Stava tremando. Palpitava. Il cuore gli batteva forte. Guardò l’orologio. Quasi mezzogiorno. Cominciò a togliersi la polvere dai capelli e dai vestiti e sentì il bisogno di bere qualcosa. Di solito non lo faceva mai durante il giorno... be’, almeno non fino all’ora di pranzo. Di solito. Ma un whisky liscio sarebbe andato giù benissimo. O un brandy. O anche, pensò guardando le insegne in cirillico, una vodka.
Si alzò, afferrò la maniglia del trolley e continuò a tirarselo dietro, ascoltando i tonfi ritmici e regolari delle ruote sulle assi di legno. Vide l’insegna di un locale poco distante. La prima vetrina della fila. Le parole MOSCOW e BAR erano scritte in blu, rosso e bianco. Subito dopo c’era un grosso tendone verde con la scritta TATIANA in lettere gialle.
Entrò nel Moscow Bar. Era quasi vuoto e male illuminato. Sulla destra c’era un lungo bancone di legno con sgabelli rivestiti di cuoio rosso su un sostegno cromato. Sulla sinistra, panche di pelle rossa e tavolini di metallo. Al bar sedevano due uomini che sembravano gorilla di un film di James Bond. Avevano le teste rasate, indossavano t-shirt nere a maniche corte ed erano intenti a fissare in silenzio un televisore a grande schermo appeso alla parete. Sembravano ipnotizzati.
Sul bancone davanti a loro c’erano dei bicchierini vuoti e una bottiglia di vodka in un secchiello del ghiaccio. Stavano fumando entrambi e accanto al secchiello c’era un posacenere colmo di mozziconi. Gli altri avventori, due giovani massicci con indosso giubbotti di pelle dall’aria costosa e grossi anelli alle dita, erano seduti su una delle panchette. Stavano bevendo caffè e uno di loro stava fumando.
C’era un buon odore, pensò Ronnie. Caffè e sigarette. Sigarette russe, forti. Nel locale c’erano diversi cartelli scritti in cirillico, bandiere e sciarpe di squadre di calcio, principalmente inglesi. Ronnie riconobbe i colori del Newcastle, del Manchester United e del Chelsea.
Sullo schermo scorrevano le immagini dell’inferno sulla terra. Nel locale non parlava nessuno. Anche Ronnie cominciò a guardare: era impossibile non farlo. Due aerei, uno dopo l’altro, che si schiantavano contro le Torri Gemelle. Poi le Torri che crollavano. Non importava quante volte lo vedeva, ogni volta era diverso. Sempre peggio.
“Signore?”
Inglese stentato. Il barista era un mingherlino con una zazzera di capelli neri pettinati in avanti. Indossava un grembiule sporco su una camicia di jeans che aveva un disperato bisogno di essere stirata.
“Avete la vodka Kalashnikov?”
Il barista lo guardò. “Krashakov?”
“Non fa niente”, disse Ronnie. “Una vodka qualsiasi, liscia, e un espresso. Avete l’espresso?”
“Caffè russo.”
“Benissimo.”
Il tipo annuì. “Un caffè russo. Vodka.” Camminava leggermente curvo, come se gli facesse male la schiena.
Sullo schermo, un uomo stava male. Era un nero calvo, ricoperto di polvere grigia, con una maschera a ossigeno sulla faccia collegata a un sacco che si gonfiava. Un uomo con un elmetto a visiera, un passamontagna rosso e una maglietta nera gli faceva da guida attraverso la neve grigiastra.
“Un casino del genere!” disse il barista nel suo inglese stentato. “A Manhattan. Incredibile. Tu sai di questo? Sai cosa succedendo?”
“Ero lì”, disse Ronnie.
“Sì? Tu eri lì?”
“Dammi da bere. Ho bisogno di quella vodka”, si spazientì Ronnie.
“Ti porto da bere, tu non preoccupare. Tu eri lì?”
“Non mi sono spiegato?” disse Ronnie.
Il barman si voltò sbuffando e tirò fuori una bottiglia di vodka. Uno dei due gorilla si voltò verso Ronnie e sollevò il bicchiere. Era ubriaco e parlava biascicando le parole. “Sai una cosa? Trent’anni fa ti avrei chiamato compagno. Adesso dico amico. Sai cosa voglio dire?”
Ronnie sollevò il bicchiere un istante dopo che il barista glielo mise davanti. “Non esattamente, no.”
“Sei gay o qualcosa del genere?” chiese l’uomo.
“No, non sono gay.”
L’uomo appoggiò il bicchiere e mulinò le braccia. “Io non ho problemi con i gay. No, proprio no.”
“Benissimo”, disse Ronnie. “Nemmeno io.”
L’uomo sorrise. I suoi denti erano uno schifo, pensò Ronnie. Sembrava che avesse la bocca piena di detriti. L’uomo sollevò il bicchiere e Ronnie lo toccò con il proprio. “Cin cin.”
Ora sullo schermo c’era George Bush. Indossava un completo nero e una cravatta arancione, ed era seduto in una classe di scuola elementare, davanti a una piccola lavagna. Sulla parete alle sue spalle erano appesi dei disegni. Su uno c’era un orso con una sciarpa a strisce che andava in bicicletta. Un uomo si era chinato verso il presidente a sussurrargli qualcosa all’orecchio. Poi l’immagine cambiò, inquadrando i frammenti di un aereo schiantato al suolo.
“Tu sei okay”, disse l’uomo a Ronnie. “Tu mi piaci. Tu sei okay.” Versò dell’altra vodka nel suo bicchiere, poi tenne per un attimo la bottiglia inclinata sopra il bicchiere di Ronnie. Strizzò gli occhi, vide che era ancora pieno e allora rimise la bottiglia nel ghiaccio. “Dovresti bere.” Svuotò il suo bicchiere. “Oggi abbiamo bisogno di bere.” Tornò a voltarsi verso lo schermo. “Questo non è reale. Non è possibile.”
Ronnie fece un sorso. La vodka gli incendiò la gola. Un paio di secondi più tardi, inclinò il bicchiere e la bevve tutta d’un fiato. L’effetto fu quasi istantaneo, gli bruciava dentro, nel profondo. Versò un altro bicchiere per sé e uno per il suo nuovo amico.
Rimasero in silenzio a guardare lo schermo.
Dopo diversi altri bicchieri di vodka, Ronnie cominciava a sentirsi piuttosto ubriaco. A un certo punto barcollò giù dal suo sgabello, arrancò fino a una delle panchette vuote e si addormentò.
Al risveglio, aveva un mal di testa feroce e una sete incredibile. Poi, un attimo improvviso di panico.
Le mie borse.
Merda, merda, merda.
Ma, con suo enorme sollievo, le vide. Erano ancora nel punto in cui le aveva lasciate, accanto allo sgabello.
Erano le due del pomeriggio.
Nel bar c’erano ancora le stesse persone. E le stesse immagini si susseguivano sullo schermo. Si alzò e tornò al bancone, salutando il suo amico con un cenno del capo.
“E il Giappone?” disse il gorilla.
“Sì, perché non ne parlano?” disse l’altro.
“Il Giappone?” domandò il barista.
“Continuiamo a sentir parlare di questo Osaka Bin Laden. Ma che c’entra il Giappone?”
Ora in tv c’era il sindaco Giuliani, che parlava con espressione costernata. Sembrava calmo. Sembrava partecipe. Aveva l’aria di un uomo che ha tutto sotto controllo.
Il nuovo amico di Ronnie si voltò verso di lui. “Conosci Sam Colt?”
Ronnie, che stava cercando di ascoltare cosa diceva Giuliani, scosse la testa. “No.”
“Il tipo che ha inventato il revolver, giusto?”
“Ah, okay. Lui.”
“Sai cosa ha detto Sam Colt?”
“No.”
“Sam Colt ha detto, Adesso ho reso tutti gli uomini uguali!” Il russo sorrise, sfoderando ancora una volta la sua rivoltante dentatura. “Sì? Okay? Capisci?”
Ronnie annuì e ordinò acqua minerale frizzante e caffè. Si rese conto di essere rimasto a digiuno dalla prima colazione, ma non aveva appetito.
Giuliani venne sostituito dai fantasmi grigi barcollanti. Assomigliavano a quelli che aveva visto con i suoi occhi. D’un tratto, gli tornò in mente una vecchia poesia che aveva imparato a scuola. Di uno dei suoi scrittori preferiti, Rudyard Kipling. Sì. Kipling era il migliore.
Kipling capiva il potere, il controllo, il segreto per costruire un impero.
Se riesci a tenere la testa sulle spalle quando tutti intorno a te
la stanno perdendo...
Se sai affrontare il Trionfo e la Catastrofe
e trattare quei due impostori alla stessa maniera...
Sullo schermo vide un vigile del fuoco che piangeva. Il casco era ricoperto da neve grigia e lui stava seduto, con la visiera sollevata, tenendosi la faccia tra le mani.
Ronnie si sporse in avanti e batté sulla spalla del barista. L’uomo distolse lo sguardo dal televisore. “Eh?”
“Avete delle stanze qui? Mi serve un posto per la notte.”
Il suo nuovo amico si voltò verso di lui. “Non ci sono voli. Giusto?”
“Giusto.”
“Da dove vieni, comunque?”
Ronnie esitò. “Canada. Toronto.”
“Toronto”, ripeté il russo. “Canada. Okay. Bene.” Rimase in silenzio per un secondo, poi aggiunse: “Una stanza a buon mercato?”
Ronnie si rese conto di non poter usare nessuna delle sue carte di credito – anche ammesso che avessero ancora fondi disponibili. Nel portafogli restavano poco meno di quattrocento dollari in contanti, e avrebbe dovuto farseli bastare finché non fosse riuscito a cambiare una parte di quell’altra valuta che aveva con sé – sempre posto di trovare un compratore che gli facesse il prezzo giusto. E nessuna domanda.
“Sì, una che costa poco”, rispose. “Meno costa, meglio è.”
“Sei nel posto gusto. Tu vuoi OSS. È questo che vuoi.”
“OSS?”
“Occupazione Stanza Singola. Tu paghi contanti, loro non ti fanno domande. Mio cugino ha una casa di OSS. Dieci minuti a piedi. Vuoi che ti do l’indirizzo?”
“Sembra un buon piano”, rispose Ronnie.
Il russo gli mostrò di nuovo i denti. “Piano? Tu hai un piano? Un buon piano?”
“Carpe diem!”
“Eh?”
“È un modo di dire.”
“Carpe diem?” Il russo lo pronunciò lentamente, quasi in modo goffo.
Ronnie sorrise, poi gli offrì un altro bicchiere.