70.

Ottobre 2007

Abby si mise a correre. Aveva corso quasi tutte le mattine, quando era a Melbourne e, anche se negli ultimi due mesi non aveva fatto molto esercizio, era ancora piuttosto in forma.

Sbucò fuori senza voltarsi indietro, attraverso il parcheggio asfaltato della Southern Deposit Security, oltre i furgoni e i camion, fuori dal cancello e su per la collina. Poi, appena prima di voltare a destra per infilarsi tra i cespugli che circondavano il parcheggio vicino ai negozi, si lanciò una rapida occhiata alle spalle.

Ricky non era ancora apparso.

Arrancò tra i cespugli ed evitò per un pelo di essere investita da una monovolume guidata da una donna scarmigliata mentre attraversava di corsa le corsie del parcheggio verso l’ingresso principale di un negozio di arredamento. Quando ci arrivò davanti si fermò e si voltò a guardare.

Ancora nessun segno di Ricky.

Entrò nell’edificio, a malapena consapevole dell’odore penetrante e particolare dei mobili nuovi, e lo attraversò di corsa, evitando i clienti mentre oltrepassava l’esposizione di mobili per ufficio, camere da letto, soggiorni. Si ritrovò praticamente sul retro del negozio, nella sezione dell’arredamento per bagno. C’erano docce tutto intorno a lei. Un box doccia, elegante, alla sua destra.

Guardò il corridoio. Ricky non si vedeva.

Il cuore le martellava impazzito, come se niente lo tenesse più ancorato dentro il torace. Aveva ancora in mano la targhetta identificativa plastificata della Southern Deposit Security. Ricky non le aveva permesso di portarsi dietro la borsa dall’appartamento, ma era riuscita a nascondere il cellulare infilandoselo nella tasca anteriore dei pantaloni insieme a un po’ di soldi, alla sua carta di credito e alla chiave di casa di sua madre. Aveva spento il telefono per non correre rischi nell’eventualità – una possibilità su un milione – che si mettesse a squillare. Ora lo recuperò e lo riaccese. Non appena ebbe il segnale, compose il numero della madre.

Nessuna risposta. L’aveva implorata per mesi di attivare la segreteria telefonica, ma non c’era stato verso. Dopo diversi squilli, il segnale divenne un gemito continuo. Abby provò di nuovo.

C’era una panchetta di legno in uno dei box doccia, appoggiata in verticale alla parete. Abby entrò, abbassò la panchetta e si sedette tenendosi il cellulare all’orecchio e ascoltando gli squilli a vuoto. E intanto si sforzava furiosamente di trovare una soluzione.

Era in preda al panico più totale.

Tutte le sue tattiche per prendere tempo erano esaurite. Non aveva avuto modo di pensarci abbastanza. Al momento non era in grado di pensare a niente. Tutto ciò che poteva fare era procedere con il pilota automatico, affrontando un minuto alla volta.

Ricky aveva minacciato di fare del male a sua madre. Una donna anziana e malata. Il suo vantaggio nei confronti di Ricky consisteva nell’essere ancora in possesso di ciò che lui voleva disperatamente riavere. Doveva continuare a ricordare a se stessa che era lei ad avere il coltello dalla parte del manico.

Ricky poteva smaniare finché voleva.

Ho io tutto ciò che vuole.

Tranne...

Si mise la testa tra le mani. Non aveva a che fare con una persona normale. Ricky era più simile a una macchina.

Una voce improvvisa la fece sobbalzare.

“Si sente bene? Posso aiutarla, signora?”

Un giovane commesso in giacca e cravatta, con una tesserina appesa al bavero che lo identificava come Jason, era sulla porta del box doccia. Abby lo guardò.

“Io... io...”

Jason aveva una faccia gentile, e d’un tratto Abby si sentì vicina alle lacrime. Pensando in fretta, con un piano che stava prendendo forma nel suo cervello, disse, con un tono volutamente debole e vulnerabile: “Non mi sento molto bene. Potrebbe, per favore, chiamarmi un taxi?”

“Ma certo, subito.” Il commesso la guardò, preoccupato. “Preferisce che chiami un’ambulanza?”

Lei scosse la testa. “No, un taxi, grazie. Starò bene quando sarò a casa. Ho soltanto bisogno di stendermi.”

“Abbiamo un’area di riposo per il personale”, disse il commesso in tono comprensivo e sollecito. “Vuole andare lì ad aspettare?”

“Sì, grazie. Grazie mille, davvero.”

Guardandosi intorno in cerca di Ricky, Abby seguì il commesso oltre una porta laterale in una stanzetta. Lungo una parete c’era una fila di poltrone sistemate di fronte a un tavolino basso e lungo, una macchinetta per il caffè, un piccolo frigorifero e un contenitore di biscotti.

“Vuole qualcosa?” le domandò lui. “Un po’ d’acqua, magari?”

“Acqua”, rispose Abby annuendo.

“Adesso chiamo un taxi, poi le porto un po’ d’acqua.”

“C’è un ingresso laterale per il taxi? Io... io non sono sicura di potercela fare a riattraversare tutto il negozio.”

Il commesso le indicò una porta che Abby non aveva visto, con una scritta luminosa EXIT poco sopra.

“Ingresso di servizio”, le disse. “Dirò al taxi di venire qui.”

“Lei è davvero molto gentile.”

 

* * *

Dieci minuti dopo, Jason entrò per dirle che il taxi la aspettava fuori. Abby finì di bere l’acqua e poi, recitando la parte dell’ammalata, uscì lentamente dalla porta di servizio e salì a bordo di un taxi Streamline bianco e azzurro, ringraziando ancora il giovane commesso per la sua cortesia.

Il tassista, un uomo anziano con una folta chioma di capelli bianchi, chiuse la portiera.

Abby gli diede l’indirizzo dell’appartamento di sua madre a Eastbourne prima di lasciarsi cadere sul sedile posteriore, abbassandosi in modo da poter vedere fuori senza essere vista, e sistemandosi il giubbotto sopra la testa.

“Vuole che alzi il riscaldamento?” le domandò il tassista, premuroso.

“Sto bene, grazie”, rispose Abby.

Mentre uscivano dal parcheggio, cercò con lo sguardo Ricky o la Ford a noleggio. Non c’era traccia né dell’uno né dell’altra. Poi, in cima alla salita, mentre raggiungevano l’incrocio con la strada principale, vide la macchina. La portiera del guidatore era aperta e Ricky era in piedi accanto alla vettura e si guardava intorno. La sua faccia, sotto la visiera del berretto da baseball, era una maschera di collera.

Abby si appiattì sul sedile, sotto il livello del finestrino, e si coprì completamente la testa con il giubbotto. Poi attese finché non sentì il taxi che si allontanava, svoltando a destra su per la collina, e si alzò quel tanto che bastava da riuscire a guardare fuori dal lunotto posteriore. Ricky stava guardando dalla parte opposta, scrutando il parcheggio.

“La prego, vada più veloce che può”, disse al tassista. “Le darò una buona mancia.”

“Farò del mio meglio”, rispose l’uomo.

Abby udì musica classica alla radio. Qualcosa che conosceva: il “Coro degli Schiavi Ebrei” di Verdi. Ironia della sorte, era uno dei brani preferiti di sua madre. Una curiosa coincidenza. O forse era un segno?

Abby credeva nei presagi, ci aveva sempre creduto. Non aveva mai accettato le convinzioni religiose dei genitori, ma era sempre stata superstiziosa. Era davvero strano che quel pezzo venisse trasmesso proprio in quel momento.

“Bella musica”, disse.

“Posso abbassare, se vuole.”

“No, la prego. Alzi.”

Il tassista obbedì.

Abby compose di nuovo il numero della madre. Quando cominciò a squillare, sentì il bip insistente di una chiamata in arrivo. Potevano essere solo due persone. Guardò il display e vide la scritta Numero privato.

Esitò. Cercò di pensare con chiarezza. Poteva essere sua madre? Improbabile, ma...

Ma...

Continuò a esitare. Alla fine, accettò la chiamata.

“Okay, puttana, molto divertente! Dove cazzo sei?”

Riappese. Le tremavano le mani. Il senso di nausea tornò a stringerle lo stomaco.

Il telefono squillò di nuovo. Lo stesso Numero privato. Abby rifiutò la chiamata.

Un’altra volta.

Poi si rese conto che poteva gestire la cosa in modo molto più furbo e aspettò che il telefono squillasse ancora.

Ma rimase muto.

Doppia identità
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