35.

11 settembre 2001

Nel camioncino ancora non parlava nessuno, tranne il guidatore che invece non teneva mai la bocca chiusa. Era come un televisore in un bar, con il volume fastidiosamente alto, che non puoi spegnere e al quale non puoi cambiare canale. Ronnie stava cercando di ascoltare il notiziario trasmesso dalla radio e di raccogliere le idee, ma l’uomo al volante gli impediva di fare sia l’una che l’altra cosa.

In più, il forte accento di Brooklyn rendeva difficile a Ronnie decifrare le sue parole. Ma, visto che l’uomo era gentile e gli stava dando un passaggio, non poteva certo dirgli di stare zitto. Così restava seduto ascoltando per metà, annuendo e ogni tanto buttando lì un “Già”, oppure “Sul serio?” o ancora “Stai scherzando”, a seconda di ciò che riteneva più opportuno.

L’uomo aveva detto peste e corna della maggior parte delle minoranze etniche di ‘Questo Grande Paese’ e ora stava parlando delle sue scale e delle sue attrezzature nella Torre Sud. Sembrava molto preoccupato per il suo equipaggiamento. Ce l’aveva anche con il Servizio Sanitario Nazionale, senza contare il fisco, che gli ispirò un’altra filippica.

Poi ricadde misericordiosamente in qualche istante di silenzio e lasciò che a parlare fosse la radio. I fantasmi alle spalle di Ronnie nel camioncino rimasero zitti. Forse stavano ascoltando la radio, forse erano troppo scioccati per riuscire ad assorbire alcunché.

Era una litania. Una lista di tutte le cose che erano successe e che Ronnie già conosceva. Tra poco George Bush avrebbe detto qualcosa. Nel frattempo, il sindaco Giuliani era diretto sul luogo del disastro. Gli Stati Uniti erano sotto attacco. Ci sarebbero stati aggiornamenti a mano a mano che la redazione riceveva nuova informazioni.

Nella mente di Ronnie, il suo piano stava lentamente prendendo forma.

Stavano percorrendo una strada ampia e silenziosa. Alla loro destra c’era una striscia di erba su cui si ergevano alberi e lampioni. Oltre l’erba c’era una stradina, o una pista ciclabile, e poi una cancellata, al di là della quale correva un’altra strada, parallela alla loro, con macchine e furgoni parcheggiati su entrambi i lati e palazzi di mattoni rossi non troppo alti, nulla a che vedere con i monoliti di Manhattan. Dopo circa un chilometro gli edifici lasciarono il posto a grosse abitazioni angolari che potevano essere ville singole o bifamiliari. Sembrava una zona prosperosa. Piacevole e tranquilla.

Oltrepassarono un cartello che diceva OCEAN PARKWAY.

Guardò un’anziana coppia che camminava lentamente sul marciapiedi e si chiese se fossero a conoscenza del dramma che si stava svolgendo a pochi chilometri di distanza dall’altra parte del fiume. Non sembrava. Se avessero sentito qualcosa, di sicuro sarebbero stati incollati alla tv. A parte loro, non c’era nessuno in vista. Certo di solito, a quest’ora, in un giorno feriale, un sacco di gente sarebbe stata in ufficio. Ma le madri sarebbero state in giro con i passeggini. Le persone a passeggio con i cani. I ragazzini a zonzo a perdere tempo. Non c’era nessuno. Anche il traffico era scorrevole. Fin troppo.

“Dove siamo?” domandò all’uomo al volante.

“Brooklyn.”

“Ah, certo”, disse Ronnie. “Ancora a Brooklyn.”

Vide un cartello su un palazzo che diceva YESHIVA CENTER. Gli sembrava che fossero in macchina da una vita. Non si era mai reso conto che Brooklyn fosse tanto grande. Abbastanza grande da perdercisi, da scomparirci dentro.

Gli vennero in mente delle parole. Era la battuta di una commedia di Marlowe, L’ebreo di Malta, che era andato a vedere di recente con Lorraine e i Klinger al Theatre Royal di Brighton.

Ma ciò accadeva in un altro paese.

E comunque, la ragazza è morta.

La strada proseguiva diritta. Oltrepassarono un incrocio, dove agli eleganti mattoni rossi si sostituirono isolati di cemento prefabbricato, più moderni. Poi, d’un tratto, furono sotto il cavalcavia di acciaio verde dove passavano i binari della Linea L.

“Rossi”, disse il guidatore. “Tutta questa zona è rossa, adesso.”

Rossa?” domandò Ronnie, senza capire.

L’uomo al volante gli indicò una fila di negozi dalle insegne variopinte. Una manicure. La Shostakovich Music, Art and Sports School. C’erano caratteri russi dappertutto. Vide l’insegna di una farmacia in cirillico. A meno di parlare russo, impossibile sapere che cosa vendesse la metà di quei negozi. E lui non ne conosceva nemmeno una parola.

Russi. Adesso era chiaro.

“Questa è Little Odessa”, disse l’uomo. “Una cazzo di colonia, enorme. Un tempo non c’era, quando io ero ragazzo. Perestroika, glasnost e tutta quella roba lì, eh? Gli hanno permesso di viaggiare, pensa un po’. E vengono tutti qui! Il mondo sta cambiando – capisci cosa intendo?”

Ronnie ebbe la tentazione di zittirlo dicendogli che una volta il mondo era cambiato anche per i Nativi Americani, ma non voleva essere buttato fuori dal camioncino.

Così si limitò a un altro: “Già”.

Svoltarono a destra in una strada residenziale senza uscita. Dall’altra parte c’era una fila di pilastri spartitraffico oltre i quali c’era un lungomare lastricato di assi in legno. Ancora più in là, una spiaggia. E poi l’oceano.

“Brighton Beach. Bel posto. Qui siamo al sicuro. Al sicuro dagli aerei”, disse l’uomo al volante, indicando a Ronnie che quella era la fine del viaggio.

Poi si rivolse ai fantasmi sul sedile posteriore. “Coney Island. Brighton Beach. Io devo tornare a trovare le mie scale, le mie attrezzature, tutta la mia roba. Roba che costa, sapete.”

Ronnie si slacciò la cintura di sicurezza, ringraziò l’uomo e gli strinse la mano grossa e callosa.

“Stai bene, amico.”

“Anche tu.”

“Ci puoi scommettere.”

Ronnie aprì la portiera e scese sull’asfalto. Nell’aria c’era il profumo pungente del mare. E soltanto una minima traccia di odore di bruciato e di carburante per aerei. Abbastanza debole da farlo sentire al sicuro. Ma non tanto da farlo sentire libero da ciò che aveva appena passato.

Senza nemmeno voltarsi a guardare i fantasmi, si incamminò sulla passerella di legno con un’andatura quasi baldanzosa e tirò fuori il cellulare per controllare che fosse ancora spento.

Poi si fermò e guardò oltre la spiaggia sabbiosa, verso la distesa piatta e verde-azzurra dell’oceano e i chilometri di terra offuscati dalla distanza. Trasse un respiro profondo. Poi un altro. Il suo piano era ancora molto vago, bisognava lavorarci su.

Ma si sentiva eccitato.

Euforico.

Non molte persone a New York, la mattina dell’undici settembre, sollevarono un pugno in aria in segno di esultanza. Ma Ronnie Wilson lo fece.

Doppia identità
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