36.

Ottobre 2007

Abby era seduta con una tazza di tè caldo nelle mani tremanti, e fissava da una fessura delle imposte la strada sottostante. Le bruciavano gli occhi a causa delle tre notti trascorse senza chiudere occhio. Era invasa dalla paura.

So dove sei.

La sua valigia era accanto alla porta, pronta e già chiusa. Guardò l’orologio. Le nove meno cinque. Tra cinque minuti, non appena sarebbe iniziato l’orario di ufficio, avrebbe fatto la telefonata alla quale aveva pensato tutto il giorno prima. Era ironico, pensò, avere sempre odiato il lunedì mattina, mentre ora lo aveva atteso con impazienza crescente.

Si sentiva più spaventata di quanto non lo fosse mai stata in vita sua.

A meno che non si sbagliasse completamente e fosse in preda al panico senza alcun motivo, lui era là fuori da qualche parte, a osservarla, in attesa. La sua carta di credito sotto controllo. Attendeva e osservava. Furioso.

Sì, un tempo aveva fatto il meccanico. Era capace di metter mano a un motore o un’apparecchiatura elettrica. Ma perché avrebbe dovuto fare qualcosa all’ascensore?

Tentò di non pensarci. Se davvero lui sapeva dove si trovava, perché non si era limitato a starsene buono ad aspettarla? Che cosa poteva guadagnarci bloccandola nell’ascensore? Se voleva del tempo per introdursi in casa sua, perché non aveva semplicemente aspettato che lei uscisse?

E se invece era il panico a suggerirle che due più due fa cinque?

Forse. O forse no. Non lo sapeva. E così, per la maggior parte della giornata, il giorno prima, invece di uscire a comprare il giornale della domenica e di impigrirsi davanti alla televisione come avrebbe fatto di solito, era rimasta lì seduta, nello stesso punto preciso in cui si trovava ora, a guardare la strada sotto le finestre, ingannando l’attesa ascoltando una lezione di spagnolo dopo l’altra nelle cuffie, pronunciando e ripetendo parole e frasi a voce alta.

Era stata una domenica orribile, con un vento da sud-est proveniente dalla Manica che continuava a frustare la pioggia sull’asfalto, le pozzanghere, le macchine parcheggiate, i passanti.

Ed erano proprio le auto e i passanti che lei osservava, come un falco, attraverso la pioggia che continuava a cadere anche oggi. Quando si era svegliata, per prima cosa aveva controllato tutte le macchine parcheggiate. Dalla sera prima ce n’erano soltanto un paio di nuove. Nel quartiere i parcheggi scarseggiavano e così, quando qualcuno ne trovava uno, aveva la tendenza a non spostare la macchina salvo che fosse strettamente necessario. Altrimenti, nel momento stesso in cui se ne andava, un altro gli soffiava il posto, e al suo ritorno doveva parcheggiare magari a interi isolati di distanza.

Aveva ricevuto due visite il giorno prima, un fotografo dell’Argus, al quale aveva detto al citofono di andarsene, e il custode, Tomasz, che era venuto a scusarsi, forse preoccupato per il suo posto di lavoro, sperando che lei non avesse intenzione di sporgere reclamo nei suoi confronti. Le spiegò che dei vandali dovevano essersi introdotti nella sala motori dell’ascensore e combinato qualcosa al meccanismo dei freni e al quadro elettrico. Gentaglia, aveva detto. Aveva trovato un paio di siringhe nel locale. Ma non era stato in grado di fornirle una spiegazione convincente sul perché il campanello d’allarme – che avrebbe dovuto suonare direttamente nel suo appartamento – non aveva funzionato. Le aveva assicurato che la compagnia dell’ascensore ci stava lavorando, ma il danno che avevano fatto i pompieri per soccorrerla avrebbe tenuto l’impianto fermo ancora per diversi giorni.

Abby si era liberata di lui il più in fretta possibile, in modo da poter tornare alla sua postazione di guardia sulla strada.

Aveva chiamato la madre, ma lei non aveva accennato ad alcuna telefonata da parte di sconosciuti. Abby aveva continuato a mentire, dicendo di essere ancora in Australia e che si stava divertendo molto.

A volte gli sms finivano al numero sbagliato per errore. Poteva essere stato il suo caso?

So dove sei.

Era possibile.

Dopo l’esperienza vissuta nell’ascensore, si stava forse lasciando trasportare dalla paranoia, arrivando a conclusioni affrettate? Era confortante pensarlo. Ma l’autocompiacimento era un lusso che non poteva permettersi. Era entrata in quella storia conoscendo benissimo i rischi che correva. Sapendo bene che ne sarebbe uscita confidando solo nelle proprie capacità e nella propria intelligenza, ventiquattro ore su ventiquattro e sette giorni su sette, finché non fosse finita, per tutto il tempo che ci sarebbe voluto.

L’unica cosa che l’aveva fatta sorridere, il giorno prima, era stato un altro dei suoi adorabili sms. Questo diceva:

Non ami una donna perché è bellissima, ma è bellissima perché tu la ami.

E lei aveva risposto:

È la bellezza a catturare la tua attenzione, e la personalità a catturare il tuo cuore.

Per tutta la domenica non aveva visto nulla di insolito nella strada di casa. Nessuno sconosciuto che la tenesse d’occhio. Di Ricky nemmeno l’ombra. Soltanto la pioggia. I passanti. La vita che continuava.

La vita normale.

Quella che lei – ancora per poco, promise a se stessa – non aveva più.

Ma tutto ciò sarebbe cambiato molto presto.

Doppia identità
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