52.

11 settembre 2001

Seduta sul bordo del divano a forma di L in soggiorno, Lorraine svitò il tappo di una bottiglietta di vodka e ne versò il contenuto sopra i cubetti di ghiaccio e la fetta di lime nel suo bicchiere. Sua sorella era andata a trovarla qualche ora prima con un’intera busta di plastica piena di bottigliette in miniatura. Mo sembrava averne una scorta infinita e Lorraine immaginava che le rubasse dal bar dell’aereo ogni volta che saliva a bordo.

Erano le nove. Fuori era quasi buio. Sul televisore c’era ancora il notiziario. Lorraine l’aveva guardato tutto il giorno attraverso un velo di lacrime. Sempre le stesse immagini dell’orrore, le stesse dichiarazioni dei politici. Ora erano collegati con uno studio televisivo in Pakistan e c’erano diverse persone: un medico, un consulente informatico, un avvocato, una documentarista televisiva, un direttore di rete. Lorraine non riusciva a credere alle sue orecchie. Stavano dicendo che ciò che era capitato negli Stati Uniti quel giorno era una buona cosa.

Si sporse in avanti e spense la sigaretta in un posacenere stracolmo. Mo era in cucina a preparare un’insalata e a scaldare un po’ di pasta. Lorraine guardava quelle persone e le ascoltava, sbalordita. Erano persone intelligenti. Uno stava addirittura ridendo. Sul suo viso c’era un’espressione di gioia.

“Era ora che gli Stati Uniti d’America si rendessero conto che devono smetterla di prendersela con il resto del mondo. Noi non vogliamo i loro valori. Oggi hanno imparato la lezione. Oggi è stato il loro turno di prendersi un pugno sul naso!”

La documentarista annuì e continuò con foga su quella falsariga.

Lorraine guardò il telefono accanto a sé. Ronnie non aveva chiamato. Erano morte migliaia di persone. E quei commentatori esultavano? C’era gente che era saltata giù dai grattacieli in fiamme. Un pugno sul naso?

Prese il cordless e se lo premette contro le guance umide di lacrime. Chiama, Ronnie tesoro, chiama. Ti prego, chiama. Ti prego!

Mo era sempre stata protettiva nei confronti della sorella. Anche se aveva soltanto tre anni più di lei, la trattava come se tra loro ci fosse un’intera generazione di differenza.

In realtà, erano molto diverse. Non soltanto per il colore dei capelli – i capelli di Mo erano nerissimi – e l’aspetto esteriore, ma anche per l’atteggiamento nei confronti della vita e per la fortuna di cui avevano goduto. Mo aveva un corpo sinuoso, arrotondato, naturalmente voluttuoso. Era gentile. La vita le sorrideva. Lorraine aveva sopportato cinque anni di terapie per la fecondazione in vitro – un trattamento incredibilmente costoso, umiliante e, alla fine, del tutto inutile. A Mo bastava pensare all’uccello di suo marito per restare incinta.

Aveva avuto tre figli, uno dopo l’altro, e stavano tutti crescendo bene, educati e sani. Era felice del marito, un geometra senza pretese, e della loro piccola casetta ordinata. A volte Lorraine desiderava essere come lei. Sapersi accontentare, invece che ambire – come fosse una fame costante – a uno stile di vita migliore.

“Lori!” gridò Mo eccitata dalla cucina.

Arrivò correndo nella stanza e, per un momento, le speranze di Lorraine si accesero. Aveva intravisto Ronnie al telegiornale?

Ma, quando apparve sulla soglia, il viso di Mo era una maschera di shock. “Svelta! Qualcuno ti sta rubando la macchina!”

Lorraine balzò giù dal divano, infilò le pantofole, corse alla porta di casa e la spalancò. Parcheggiato appena oltre il vialetto c’era un carro attrezzi con i lampeggianti arancioni sul tetto. Due uomini dall’aria rude stavano caricando, tramite un cavo, la sua BMW decapottabile sul retro del carro attrezzi.

“Ehi!” gridò, correndo verso di loro livida di rabbia. “Cosa cazzo credete di fare?”

Loro continuarono a sollevare la macchina, che si spostava inesorabilmente in avanti, sussultando sulla piccola rampa metallica. Quando Lorraine si avvicinò, il più alto dei due infilò una mano sporca di grasso nel taschino della tuta e ne prese un pezzo di carta. “Lei è la signora Wilson?”

Improvvisamente a disagio, sentendosi d’un tratto insicura, Lorraine rispose: “Sì?”

“Suo marito è il signor Ronald Wilson?”

“Sì.” Superata l’esitazione, la sua voce era tornata al tono di sfida.

Lui le mostrò i documenti. Poi, con un’inflessione più accomodante, quasi di rammarico, disse: “Finanziaria Inter-Alliance. Stiamo riprendendo possesso di questo veicolo.”

“Che cosa intende dire?”

“Le rate non vengono pagate da sei mesi. Il signor Wilson è inadempiente.”

“Dev’esserci un errore.”

“Temo di no. Suo marito ha ignorato le tre lettere di sollecito che gli abbiamo mandato. Secondo i termini degli acquisti a rate, la compagnia è legalmente autorizzata a sequestrare il veicolo.”

Lorraine scoppiò in lacrime mentre le ruote posteriori della BMW azzurra superavano la sommità della rampa e si fermavano sul retro del carro attrezzi. “Vi prego... avete visto il telegiornale oggi. Mio marito è là. È a... a New York. Sto cercando di mettermi in contatto con lui. Sono sicura che possiamo risolvere questa situazione.”

“Suo marito dovrà parlare con la compagnia domani, signora.” C’era una traccia di comprensione nella voce dell’uomo, ma il suo tono era comunque deciso.

“Senta... io... per favore, lasciate qui la macchina almeno stasera.”

“Le darò un numero da chiamare domani”, disse l’uomo.

“Ma... resterò senza macchina. Come farò? Io... io ho delle cose, in macchina. Dei cd. Ricevute di parcheggio. I miei occhiali da sole.”

Lui le fece cenno di salire. “Faccia pure. Quelli può prenderli.”

“Grazie”, disse Lorraine. “Grazie infinite.”

Doppia identità
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