96.

Ottobre 2007

Abby era sul treno per Brighton con un groppo in gola. Una morsa le stringeva lo stomaco. Tremava, cercando di impedirsi di scoppiare a piangere e lottando per mantenersi padrona di se stessa.

Dov’era sua madre? Dove l’aveva portata il bastardo?

Il suo orologio segnava le otto e mezza. Erano passate almeno due ore da quando aveva chiuso il telefono in faccia a Ricky. Aveva rifatto più volte il numero di sua madre, ma era sempre stata dirottata verso la segreteria.

Non era sicura al cento percento di quali medicine prendesse sua madre: c’erano gli antidepressivi, più le pillole contro gli spasmi muscolari, contro la costipazione, anti-reflusso gastrico, ma dubitava fortemente che Ricky se ne sarebbe preoccupato. Senza quei farmaci, le condizioni di sua madre si sarebbero deteriorate rapidamente, e avrebbe iniziato ad avere sbalzi d’umore, passando in un attimo dall’euforia a uno stato di profonda depressione.

Abby maledisse per la milionesima volta la sua stupidità per aver lasciato sua madre tanto indifesa. Avrebbe potuto portarla con sé, maledizione.

Chiamami, Ricky. Ti prego, chiamami.

Si stava pentendo amaramente di avergli chiuso il telefono in faccia, rendendosi conto di averlo fatto senza soppesare le conseguenze. Ricky sapeva bene che sarebbe stata lei la prima a farsi prendere dal panico, e non lui. Ma avrebbe dovuto chiamarla, avrebbe dovuto mettersi in contatto. Una vecchia signora fragile e malata non era la ricompensa che Ricky voleva.

Dalla stazione prese un taxi e si fece lasciare davanti a un piccolo supermercato vicino al suo appartamento, dove comprò una piccola torcia elettrica. Tenendosi nell’ombra, girò l’angolo della via e vide, sotto il cono di luce di un lampione, la Ford Focus che Ricky aveva preso a noleggio. Aveva le ganasce alle ruote. Grossi adesivi della polizia erano appiccicati al parabrezza e sul finestrino del guidatore, a dissuadere il proprietario dallo spostare il veicolo.

Si avvicinò cautamente alla macchina. Guardandosi intorno per assicurarsi di non essere osservata, tolse la multa per divieto di sosta da sotto il tergicristallo e, usando la torcia, lesse l’orario in cui era stata emessa: le 10:03 del mattino. Quindi la macchina era stata lì tutto il giorno. Il che significava che Ricky non l’aveva adoperata per trasportare sua madre. Certo che no: aveva il furgone.

Ma forse intendeva ritornare. Forse era già lì. Per quale motivo, Abby ne dubitava. Era sicura che Ricky avesse un posto dove stare in città. Magari soltanto una piccola tana, ma un posto ce l’aveva.

Le finestre del suo appartamento erano tutte buie. Abby attraversò la strada fino al portone e premette il pulsante del citofono di Hassan, sperando che fosse in casa. Fu fortunata. Si udì un fruscio seguito dalla sua voce.

“Ciao, sono Katherine Jennings dell’appartamento ottantadue. Mi dispiace disturbarti, ma ho dimenticato la chiave del portone. Potresti aprirmi, per favore?”

“Nessun problema!”

Pochi istanti dopo si udì il ronzio della serratura elettrica che scattava. Abby spinse il portone. Quando entrò, vide un cumulo di volantini pubblicitari che traboccava dalla cassetta della posta. Meglio non toccarli, decise, non volendo lasciare alcuna indicazione del suo passaggio.

L’ascensore aveva un grosso cartello FUORI SERVIZIO attaccato alle porte con del nastro adesivo. Iniziò a salire le scale in penombra, fermandosi a ogni piano con le orecchie tese cercando di cogliere il minimo fruscio, rimpiangendo di non avere con sé la bomboletta di spray antiaggressione. Al terzo piano iniziò a sentire odore di trucioli e segatura, dai lavori nell’appartamento di sopra. Salì un altro piano, poi iniziò a farsi prendere dal nervosismo e per un attimo fu tentata di bussare alla porta di Hassan e di chiedergli di salire con lei.

Finalmente raggiunse la cima. Si fermò di nuovo ad ascoltare. C’erano altri due appartamenti a quel piano, ma Abby, nel breve tempo che aveva passato lì, non aveva mai visto nessuno entrare o uscire. Non sentiva nulla. Silenzio totale. Si avvicinò alla manichetta antincendio fissata alla parete e iniziò a srotolarla. Dopo cinque giri, vide le chiavi di riserva là dove le aveva nascoste. Riavvolse il tubo, aprì la porta antincendio e procedette sul suo pianerottolo.

Poi si immobilizzò di colpo, spaventata. E se lui fosse stato in casa?

Ovviamente non c’era. Ricky era con sua madre nella tana dove la teneva prigioniera. Ciò nonostante, infilò ogni chiave nella rispettiva serratura il più silenziosamente possibile, girandole e aprendo la porta senza fare rumore, non volendo comunque annunciare la propria presenza.

Quando entrò, le ombre la assalirono. Lasciò la porta socchiusa alle sue spalle e le luci spente. Poi la chiuse con violenza, per costringerlo allo scoperto nel caso si trovasse là dentro, magari addormentato, poi la riaprì immediatamente. La sbatté e la riaprì una seconda volta. Silenzio totale.

Puntò il fascio di luce della torcia nel corridoio. La busta di plastica piena di attrezzi che Ricky aveva portato per minacciarla – probabilmente rubati agli operai al piano di sotto – era ancora posata sul pavimento fuori dal bagno per gli ospiti.

Tenendo tutte le luci spente nell’eventualità che lui fosse fuori da qualche parte a tenere d’occhio la casa, passò al setaccio tutto l’appartamento, stanza dopo stanza. Si imbatté nella bomboletta di spray antiaggressione sul tavolo del soggiorno e se la infilò subito in tasca. Poi tornò di corsa alla porta d’ingresso e tirò il chiavistello.

Assetata e affamata, ingurgitò una Coca-cola e uno yogurt alla pesca presi dal frigorifero, poi entrò nel bagno degli ospiti, si chiuse la porta alle spalle e accese la luce. Quella stanza non aveva finestre, quindi non rischiava nulla.

Oltrepassò la tazza del water e la parete di vetro del boxdoccia e aprì la porta che conduceva al minuscolo ripostiglio, occupato quasi interamente dalla lavatrice e dall’asciugatrice. Sulla scaffale a sinistra c’erano gli attrezzi. Abby prese un martello e uno scalpello e li riportò in bagno.

Poi lanciò una breve, orgogliosa ultima occhiata alla sua bellissima opera, sistemò la lama dello scalpello contro la malta tra due piastrelle a metà della parete e colpì con forza una, due volte.

Nel giro di pochi minuti aveva rimosso abbastanza piastrelle ed era in grado di infilare la mano nello spazio retrostante. Provò un enorme sollievo quando le sue dita sfiorarono la busta impermeabile imbottita di plastica che aveva avvolto accuratamente intorno a quella di formato A4 prima di nasconderla lì il giorno stesso in cui aveva preso possesso dell’appartamento.

Il padrone di casa non sarebbe stato molto contento del danno alla parete del bagno. Se ne avesse avuto il tempo, grazie agli insegnamenti di suo padre, sarebbe stata in grado di sistemare le piastrelle in modo tanto perfetto che nessuno avrebbe mai notato la differenza. Ma per il momento le piastrelle danneggiate erano l’ultimo dei suoi problemi.

Si cambiò la biancheria, riempì la valigia per la seconda volta quella settimana infilandoci tutto ciò che pensava potesse servirle, poi si collegò a internet e cercò gli alberghi a basso costo di Brighton e Hove.

Quando ebbe fatto la sua scelta, telefonò per chiamare un altro taxi.

Doppia identità
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