4.

Ottobre 2007

Dopo nemmeno un paio di secondi, l’ascensore si fermò con un sussulto, ondeggiando da una parte all’altra e urtando le pareti della tromba con un frastuono che riecheggiò nel palazzo, simile a due bidoni che sbattono uno contro l’altro. Poi ondeggiò in avanti, mandando Abby a sbattere contro le porte.

Quasi istantaneamente riprese a scendere, in caduta libera. Abby si lasciò sfuggire un gemito. Per una frazione di secondo, il pavimento si allontanò sotto di lei. Poi si udì uno schianto lacerante e il pavimento sembrò risalire, colpendole i piedi con tanta forza da toglierle il fiato – ebbe la sensazione che le gambe le fossero state spinte su fino al collo.

La cabina si contorse, scagliandola come una marionetta contro lo specchio, e cadde di nuovo prima di immobilizzarsi quasi del tutto, oscillando lievemente, il pavimento inclinato a un angolo innaturale.

“Oh, Gesù”, sussurrò Abby.

Le luci sul soffitto tremolarono, si spensero, si riaccesero. C’era un acre odore di cavi bruciati, e Abby vide una spirale di fumo srotolarsi pigramente nell’aria accanto a lei.

Trattenne il fiato, soffocando un grido. Era come se quel maledetto aggeggio fosse sospeso a un unico filo sottile.

D’un tratto udì un rumore come di uno strappo sopra di sé. Metallo che si lacerava. Sollevò lo sguardo, in preda al terrore. Non ne sapeva molto, di ascensori, ma aveva l’impressione che qualcosa stesse cedendo. La sua immaginazione, scatenata, visualizzò il maniglione che teneva la cabina sganciarsi, i bulloni saltare.

L’ascensore precipitò di altri venti centimetri.

Abby strillò.

Poi ancora qualche centimetro. L’angolo del pavimento divenne più ripido.

La cabina balzò verso sinistra con un rumore metallico, poi sprofondò ancora. Sopra di sé, Abby udì un rumore secco, come qualcosa che si rompeva.

L’ascensore cadde ancora di qualche centimetro.

Quando si mosse per cercare di rimettersi in equilibrio, cadde e andò a sbattere con la spalla contro una delle pareti, poi con la testa contro le porte. Rimase immobile per un lungo istante, con la polvere della moquette nelle narici, senza osare muoversi, gli occhi fissi sul tetto della cabina. C’era un pannello di vetro opaco al centro del soffitto, con strisce illuminate da ogni lato. Doveva uscire da quell’affare, lo sapeva, doveva uscire alla svelta. Nei film, gli ascensori avevano dei ganci sul soffitto. Perché questo non ce l’aveva?

Il pannello dei pulsanti era al di là della sua portata. Tentò di mettersi in ginocchio per riuscire a raggiungerlo, ma l’ascensore iniziò a dondolare con forza, picchiando contro le pareti della tromba come se davvero fosse trattenuto soltanto da un unico cavo. Abby si paralizzò, terrorizzata che un movimento di troppo potesse farlo saltare.

Rimase ferma per qualche secondo, iperventilando, nella morsa del panico più assoluto, cercando di restare in ascolto. Sperava di sentire qualcuno che arrivava in suo aiuto. Niente. Se Hassan, due piani più sotto, era via, e se il resto degli inquilini era fuori o in casa con il televisore acceso, nessuno avrebbe saputo cosa stava succedendo.

L’allarme. Devo suonare l’allarme.

Fece una serie di respiri profondi. Le scoppiava il cervello, come se il suo cranio fosse di una taglia più piccolo. Le pareti si chiusero intorno a lei, all’improvviso, per poi espandersi, allontanandosi prima di restringersi di nuovo, come fossero polmoni. Le premevano addosso, poi si allargavano, polmoni che respiravano, pulsavano. Stava per avere un attacco di panico.

“Ciao”, disse piano, la voce ridotta a un sussurro gracchiante, ripetendo ciò che le aveva insegnato il suo analista, il mantra da recitare ogni volta che sentiva arrivare una crisi. “Sono Abby Dawson. Sto bene. Questa è solo una reazione chimica sballata. Sto bene, sono nel mio corpo, non sono morta. Passerà.”

Strisciò di qualche centimetro verso il pulsante di allarme. Il pavimento ondeggiò e roteò, come se lei fosse in bilico su un’asse in procinto di cadere in qualsiasi momento. Aspettò che si fosse stabilizzato, poi riprese a strisciare in avanti. Poi ancora. Un altro filo di fumo azzurrognolo e acre le passò accanto, in silenzio, come uno spettro. Abby allungò il braccio, tendendolo più che poteva, e premette con forza il dito tremante sul pulsante metallico con la scritta rossa ALLARME.

Non accadde nulla.

Doppia identità
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