27.

Ottobre 2007

L’ascensore si stava muovendo. Abby sentì il pavimento che le premeva contro la pianta dei piedi. La cabina si stava sollevando, a scossoni, come se qualcuno la stesse tirando su a mano. Poi si fermò bruscamente. Abby udì un tonfo, seguito da un rumore liquido.

Merda.

Il suo stivale si era rovesciato. Il suo stivale-latrina.

La cabina ondeggiò improvvisamente, come se fosse stata spinta con forza, e sbatté contro un lato della tromba, gettandola prima contro una parete e poi sul pavimento bagnato. Gesù.

Si udì un colpo fortissimo sul tetto. Qualcosa lo colpì con la forza di un martello pneumatico. Il suono riecheggiò, facendole male alle orecchie. Un altro colpo. Poi un altro. Mentre tentava di rialzarsi, l’ascensore sobbalzò con violenza di lato, colpendo la tromba esterna con tanta forza che Abby ne avvertì l’onda d’urto attraverso le pareti metalliche. Poi si inclinò, mandandola a sbattere contro la parete opposta.

Poi un altro colpo sul tetto.

Cristo, no.

Era lui, lassù? Ricky? Ricky che tentava di entrare a forza nell’ascensore per andarla a prendere.

La cabina si sollevò ancora di qualche centimetro, poi ondeggiò di nuovo. Abby gemette, terrorizzata. Tirò fuori il cellulare, premette il pulsante. La luce si accese e Abby poté vedere una piccola rientranza nel tetto.

Poi un altro colpo, e l’ammaccatura si allargò. Le cadde addosso una pioggia di granelli di polvere.

Un altro colpo. Ancora. Un altro. Altra polvere.

Poi il silenzio. Un lungo silenzio. E ora un rumore diverso. Una serie di tonfi sordi. Era il suo cuore che batteva all’impazzata. Buuumf... buuumf... buuumf.

Nelle orecchie il rombo del suo sangue che scorreva. Come se dentro di lei ci fosse un oceano in tempesta.

La luce del cellulare si spense. Abby premette di nuovo il pulsante. Stava cercando disperatamente di pensare. Che cosa avrebbe potuto usare come arma quando lui fosse entrato? Aveva una bomboletta di spray al peperoncino nella borsa, ma quella l’avrebbe fermato solo per qualche istante – forse per un paio di minuti, se riusciva a spruzzarglielo negli occhi. Aveva bisogno di qualcosa con cui metterlo fuori combattimento.

Il suo stivale. Lo raccolse, fin troppo consapevole del cuoio umido e molliccio, e sfiorò il tacco rinforzato. Sembrava molto duro. Poteva nasconderlo dietro la schiena, aspettare che la sua faccia comparisse e poi colpirlo. Coglierlo di sorpresa.

Il suo cervello brulicava di domande. Lui sapeva con certezza che lei era lì dentro? Era rimasto ad aspettarla sulle scale e poi era riuscito in qualche modo a bloccare l’ascensore?

Il silenzio si protrasse. Nelle sue orecchie c’erano solo i tonfi rapidi e sordi del suo battito. Come un guanto da boxe che colpisce un sacco.

Poi un lampo di rabbia squarciò il velo della sua paura.

Così vicina, ci ero arrivata così vicina!

Così vicina alla realizzazione dei miei sogni!

Devo tirarmene fuori. In qualche modo devo riuscire a tirarmi fuori da questa situazione!

D’un tratto, l’ascensore ricominciò lentamente a salire, prima di fermarsi con un altro brusco sussulto.

Un rumore raschiante di metallo contro metallo.

Poi la punta di un piede di porco sbucò nella fessura tra le porte.

Doppia identità
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