31.

Ottobre 2007

Abby guardò terrorizzata la punta del piede di porco. Si muoveva alla cieca, prima a destra e poi a sinistra, forzando le porte dell’ascensore un paio di centimetri alla volta prima che queste si richiudessero immancabilmente, serrando con forza l’attrezzo.

Ci fu un altro colpo sul tetto e questa volta la sensazione fu proprio quella che qualcuno ci fosse saltato sopra. La cabina ondeggiò, colpendo la parete esterna e facendole perdere l’equilibrio. La piccola bomboletta di spray al peperoncino le cadde di mano mentre Abby cercava di ripararsi prima di finire contro il muro.

Con uno stridente lamento metallico di protesta, le porte dell’ascensore si stavano aprendo.

Un terrore gelido e senza forma si impadronì di lei.

Ora non erano solo pochi centimetri; si stavano aprendo molto di più.

Abby si accovacciò, tastando disperatamente il pavimento della cabina in cerca della bomboletta spray. Una lama di luce entrò nell’ascensore. Abby vide la bomboletta e la afferrò, in preda al panico. Poi, senza nemmeno prendersi il tempo di guardare, si lanciò in avanti premendo con forza sul beccuccio, mirando direttamente nell’apertura tra le porte.

E finì tra due braccia possenti che la afferrarono e la sollevarono, tirandola fuori dall’ascensore sul pavimento freddo del pianerottolo.

Abby gridò, divincolandosi, nel tentativo disperato di liberarsi. Quando premette di nuovo il beccuccio, dalla bomboletta non uscì nulla.

“Vaffanculo”, gridò. “Vaffanculo!”

“Tesoro, è tutto a posto. È tutto okay, tesoro.”

Non era una voce che conosceva. Non era la sua voce.

“Lasciami andare!” gridò, agitando i piedi nudi.

Lui la teneva stretta come in una morsa. “Tesoro? Signorina? Si calmi. È al sicuro ora. È al sicuro!”

Una faccia sotto un casco giallo le sorrideva. Un casco da pompiere. Tute verdi con strisce catarifrangenti. Abby udì il gracchiare di una ricetrasmittente. Una voce impersonale stava dicendo: “Hotel Zero-Quattro.”

Due vigili del fuoco erano sulle scale sopra di lei. Un altro aspettava qualche gradino più in basso.

L’uomo che la teneva tra le braccia sorrise ancora, rassicurante. “Stai bene, cara. Sei al sicuro”, disse.

Abby rabbrividì. Erano reali? Era una trappola?

Sembravano veri, ma continuò a tenere stretta la bomboletta spray tra le dita. Non c’era da scherzare con Ricky.

Poi vide la faccia arcigna del custode polacco del palazzo che stava ansimando su per le scale con la sua felpa bisunta e i pantaloni di fustagno marrone.

“Non sono pagato per lavorare il weekend”, borbottò. “Sono gli amministratori che devono. Io parlato loro di questo ascensore da mesi! Mesi!” Guardò Abby e si accigliò. Con un dito sporco indicò verso l’alto. “Appartamento ottantadue, vero?”

“Sì”, rispose lei.

“Gli amministratori”, sibilò l’uomo nel suo accento gutturale. “Non brave persone. Io dico loro. Io dico loro ogni giorno.”

“Da quanto tempo era là dentro, signorina?” le domandò il suo soccorritore.

Era sulla trentina ed era bello, un po’ come i ragazzi delle boy-band su MTV, con sopracciglia nere troppo perfette per essere naturali. Abby lo guardò diffidente, come se fosse troppo bello per essere un pompiere e facesse parte dell’elaborato inganno ordito da Ricky. Poi si rese conto che stava tremando tanto da fare fatica a parlare.

“Avete dell’acqua?” riuscì a dire.

Pochi secondi dopo le misero in mano una bottiglietta. Abby bevve a grandi sorsi, facendosi cadere inavvertitamente un po’ d’acqua sul mento e sul collo. Riprese a parlare solo dopo averla svuotata..

“Grazie.”

Porse la bottiglia vuota e una mano gliela prese.

“Ieri sera”, disse. “Sono rimasta – da ieri, credo – in quella trappola del cazzo, da ieri sera. Oggi è sabato?”

“Sì. Sono le cinque e venti di sabato pomeriggio.”

“Da ieri. Da ieri sera, poco dopo le sei e mezza.” Guardò infuriata il custode. “Non ha controllato l’allarme? Non ha visto che non funzionava? E nemmeno quel maledetto telefono di emergenza!”

“Gli amministratori.” Si strinse nelle spalle come se gli amministratori fossero responsabili di ogni problema dell’universo.

“Se non si sente bene dovrebbe andare al pronto soccorso per un controllo”, le disse il pompiere carino.

L’idea la terrorizzò. “No, no, sto bene, davvero, grazie. Io... io solo...”

“Se non se la sente, possiamo chiamare un’ambulanza.”

“No”, rispose Abby con fermezza. “No. Non ho bisogno dell’ospedale.”

Guardò i suoi stivali, che erano ancora nell’ascensore, e la chiazza umida sul pavimento della cabina. Non riusciva a sentire nessun odore, ma sapeva che là dentro doveva esserci puzza.

La ricetrasmittente gracchiò di nuovo e Abby udì un’altra chiamata.

“Io, temevo che sarebbe precipitato, sa? Da un momento all’altro. Credevo che mi sarei schiantata, e che sarei...”

“Nah. Nessun pericolo. L’ascensore è dotato di un meccanismo di bloccaggio di riserva. Non sarebbe caduto.” La sua voce si fece pensosa per un attimo, e il suo sguardo si spostò sul tetto dell’ascensore. “Lei vive lassù?”

Abby annuì.

Il vigile del fuoco smise di stringerla. “Dovrebbe controllare le prossime spese. E assicurarsi che non le venga addebitata la riparazione dell’ascensore.”

Il custode commentò qualcosa, sempre sugli amministratori, ma Abby lo udì appena. Il sollievo per essere stata liberata era stato soltanto passeggero. Era fantastico essere uscita da quel maledetto incubo. Ma non significava affatto essere fuori pericolo.

Si inginocchiò, cercando di raggiungere gli stivali senza dover tornare nella cabina, ma erano al di là della sua portata. Il pompiere si chinò e li tirò fuori usando il manico dell’accetta. Non era così stupido da entrarci di persona.

“Chi vi ha avvisati?” gli chiese Abby.

“La signora del...” fece una pausa per leggere un appunto sul suo taccuino. “Appartamento quarantasette. Ha provato a chiamare l’ascensore diverse volte questo pomeriggio, poi ha detto di aver sentito qualcuno che chiedeva aiuto.”

Prendendo mentalmente nota di ringraziarla, Abby guardò stancamente sulle scale, che erano coperte dai teloni degli operai e ingombre di gesso e materiali da costruzione.

“Dovrebbe assumere molti liquidi e mangiare un boccone il prima possibile”, le raccomandò il pompiere. “Qualcosa di leggero. Una zuppa, o qualcosa del genere. Verrò su con lei fino al suo appartamento, per assicurarmi che stia bene.”

Abby lo ringraziò, poi guardò la bomboletta, chiedendosi perché non avesse funzionato, e si rese conto di non aver tolto la sicura. La infilò nella borsetta e, tenendo in mano gli stivali, iniziò a salire le scale, aggirando il materiale lasciato dagli operai. E pensando.

Era stato Ricky a sabotare l’ascensore? E il pulsante dell’allarme, e il telefono di emergenza? Era troppo pensare che fosse stato lui?

Quando raggiunse la porta di casa, fu sollevata nel constatare che tutte le serrature erano come le aveva lasciate. Tuttavia, dopo aver ringraziato ancora il vigile del fuoco, entrò con cautela, controllando che il filo di cotone in corridoio fosse intatto prima di chiudere di nuovo la porta dietro di sé e sistemare le catenelle di sicurezza. Poi, come ulteriore precauzione, controllò ogni stanza dell’appartamento.

Era tutto a posto. Non era entrato nessuno.

Andò in cucina a prepararsi una tazza di tè e prese un KitKat dal frigorifero. Lo aveva appena addentato quando suonarono alla porta. Il campanello, e poi iniziarono a bussare.

Masticando il cioccolato, i nervi a fior di pelle per il timore che si trattasse di Ricky, andò alla porta e guardò dallo spioncino. Vide un uomo sui venticinque, magro e dal volto affilato, con capelli neri e corti pettinati in avanti e un completo scuro.

Chi diavolo era? Un venditore? Un Testimone di Geova? Ma di solito non venivano sempre in due? O poteva avere qualcosa a che fare con i vigili del fuoco, forse. In quel momento, stanchissima, scossa e affamata, Abby voleva solo bersi una tazza di tè, mangiare qualcosa, bere qualche bicchiere di vino rosso e dormire.

Sapere che l’uomo avrebbe dovuto oltrepassare il custode e i pompieri per arrivare fin lì alleviò un poco le sue paure. Dopo aver controllato che entrambe le catenelle di sicurezza fossero al loro posto, aprì la porta di pochi centimetri.

“Katherine Jennings?” domandò l’uomo con voce acuta e invadente. Il suo alito era caldo e odorava di gomma alla menta.

Katherine Jennings era il nome con cui aveva affittato l’appartamento.

“Sì?” rispose.

“Kevin Spinella dell’Argus. Mi chiedevo se avesse per caso un paio di minuti da dedicarmi.”

“Mi dispiace”, rispose Abby, e subito tentò di richiudere la porta. Ma il giornalista l’aveva bloccata con un piede.

“Vorrei solo una sua breve dichiarazione da poter usare.”

“Mi dispiace”, ripeté lei. “Non ho niente da dire.”

“Quindi non è grata ai vigili del fuoco per averla soccorsa?”

“No, non ho detto questo...”

Merda. Ora lo stava scrivendo sul suo taccuino.

“Senta, signorina... signora Jennings?”

Non abboccò all’amo.

Lui proseguì. “Capisco che è appena uscita da una situazione difficile... le andrebbe bene se mandassi qui un fotografo?”

“No, assolutamente no”, disse Abby. “Sono molto stanca.”

“Magari domani mattina? A che ora le andrebbe bene?”

“No, grazie. E, per favore, tolga il piede dalla porta.”

“Ha avuto la sensazione che la sua vita fosse in pericolo?”

“Sono molto stanca”, disse Abby. “Grazie.”

“D’accordo, capisco perfettamente, con quello che ha passato. Facciamo così, tornerò domattina con un fotografo. Verso le dieci le andrebbe bene? Non è troppo presto, di domenica?”

“Mi dispiace. Non voglio nessuna pubblicità.”

“Be’, bene, ci vediamo domattina allora.” Tolse il piede dalla porta.

“No, grazie”, ribatté fermamente Abby, poi spinse la porta e la chiuse a chiave con molta attenzione. Merda, proprio quello che ci voleva, la sua foto sul giornale.

Tremando, con la mente invasa da un vortice di pensieri, prese le sigarette dalla borsa e ne accese una. Poi andò in cucina.

 

* * *

Anche l’uomo seduto nel retro del vecchio furgone bianco parcheggiato nella strada sottostante si accese una sigaretta. Poi aprì una lattina di birra Foster, facendo attenzione a non spruzzare la costosa attrezzatura elettronica che aveva accanto a sé, e bevve un sorso. Attraverso le lenti inserite nel minuscolo foro che aveva praticato nel tetto del furgone, di solito godeva di una visuale perfetta sull’appartamento, anche se al momento era parzialmente oscurata dal camion dei pompieri che bloccava la strada. Almeno, pensò, rompeva la monotonia della lunga sorveglianza.

E, con sua grande soddisfazione, poteva vedere, dall’ombra che si muoveva oltre la finestra, che lei ora era in casa.

Casa dolce casa, pensò tra sé, e sorrise soddisfatto. Era quasi divertente.

Doppia identità
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