19.

Ottobre 2007

Ora l’ascensore le sembrava vivo, come una creatura soprannaturale. Quando Abby respirava, l’ascensore sospirava, scricchiolava, gemeva. Quando lei si spostava, ondeggiava, sussultava, si contorceva. Abby aveva la gola e la bocca secche e doloranti; la lingua e l’interno della bocca sembravano di carta, pronta ad assorbire ogni minima goccia di saliva che produceva.

Un refolo freddo e persistente le soffiava in faccia. Tastò nell’oscurità per trovare il pulsante di accensione del cellulare, poi lo premette per attivare la luce del display. Lo faceva ogni due o tre minuti, per controllare se c’era una tacca di segnale e per portare un minuscolo ma benvenuto raggio di luce nella sua cella instabile e sussultante.

Nessun segnale.

L’orologio sul display segnava l’una e trentadue del pomeriggio.

Tentò ancora una volta di comporre il 999. Ma il segnale era scomparso.

Con un brivido, rilesse il messaggio che le era arrivato.

So dove sei.

Nonostante non conoscesse il numero, sapeva di chi si trattava; c’era solo una persona che poteva averglielo mandato. Ma come faceva ad avere il suo numero? Era questo ciò che la preoccupava di più, al momento. Come cazzo fai a sapere il mio numero?

Era un telefono con una scheda prepagata, che aveva comprato in contanti. Aveva visto abbastanza serie televisive poliziesche per sapere che questo era ciò che facevano i delinquenti per evitare di essere rintracciati. Quelli erano i cellulari che usavano gli spacciatori di droga. L’aveva comprato per tenersi in contatto con la madre, che ora viveva dalle parti di Eastbourne, per sapere se stava bene fingendo di essere ancora all’estero. E, cosa altrettanto importante, il cellulare poteva permetterle di tenersi in contatto con Dave, e di mandargli qualche fotografia di tanto in tanto. Era difficile restare lontani a lungo da qualcuno che si amava.

Un pensiero le attraversò la mente all’improvviso: l’autore del messaggio era andato da sua madre? Ma, se anche lo avesse fatto, non avrebbe potuto avere il suo numero. Abby faceva sempre molta attenzione a tenerlo criptato. E, a parte questo, quando le aveva parlato, il giorno prima, sua madre non le aveva detto nulla di particolare e le era sembrata tranquilla.

Era possibile che lui l’avesse seguita, avesse visto dove aveva comprato il telefono e ottenuto il numero in quel modo? No. Assolutamente. L’aveva acquistato in un negozietto di cellulari in una via laterale vicino a Preston Circus, dove si era assicurata che nessuno la stesse osservando. O, almeno, aveva fatto del suo meglio per sincerarsene.

Lui era nell’edificio, adesso? Che fosse lui il responsabile di quella situazione? Se fosse stato lui a metterla in trappola? E ora stava usando il tempo a sua disposizione per introdursi nel suo appartamento...? E se in quel momento era proprio dentro casa sua, a frugare?

E se avesse trovato...

Improbabile.

Abby guardò di nuovo il display.

Quelle parole la spaventavano sempre più. Una profonda spirale di paura le attraversò l’animo. Si alzò in piedi, in preda al panico, e premette di nuovo il pulsante quando la luce si spense, infilando le dita nella fessura tra le porte della cabina per la centesima volta, tentando di aprirle a forza, piangendo per la frustrazione.

Le porte non si muovevano.

Per favore, per favore, apritevi. Oh, Dio, per favore apritevi!

L’ascensore ondeggiò di nuovo. Nella sua mente si proiettò l’immagine di un subacqueo in una gabbia per gli squali, con un Grande Squalo Bianco che tentava di infilare il muso tra le sbarre. Lui era così. Un Grande Squalo Bianco. Un predatore insensibile, implacabile. Era stata una pazzia, decise, avere acconsentito a tutto questo.

Se mai c’era stato un momento nella vita in cui la sua determinazione si era incrinata e in cui avrebbe barattato tutto ciò che aveva per rimandare indietro le lancette dell’orologio, quel momento era adesso.

Doppia identità
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