83.
Ottobre 2007
Glenn Branson suonò il campanello e indietreggiò di un paio di passi, in modo che la telecamera di sicurezza potesse inquadrarlo meglio. Il cancello in ferro battuto sussultò un paio di volte, poi cominciò lentamente ad aprirsi. Il detective risalì a bordo dell’autopattuglia, superò le due imponenti colonne in muratura e imboccò il vialetto d’accesso circolare, facendo scricchiolare la ghiaia sotto gli pneumatici. Si fermò dietro una Mercedes sportiva metallizzata e una Mercedes berlina classe S, parcheggiate l’una di fianco all’altra.
“Fico, ’sto posto, non credi?” disse. “Con le Mercedes lui e lei manco fossero asciugamani, e tutto il resto.”
Bella Moy annuì, mentre un po’ di colore le ritornava sul viso. Lo stile di guida di Glenn la terrorizzava. Glenn le stava simpatico e non voleva offenderlo, ma se avesse potuto prendere un autobus per tornare in ufficio, o farsi a piedi tutta la strada camminando sui carboni ardenti, l’avrebbe fatto.
La casa – più che altro un palazzo – era in parte in stile falso-georgiano e in parte falso tempio greco, con un colonnato che correva lungo tutta la facciata anteriore. Ari sarebbe impazzita per quel posto, pensò Grace. Strano come, appena sposati, Ari non sembrasse per nulla interessata ai soldi. Era cambiato tutto quando Sammy, che ora aveva otto anni, aveva iniziato ad andare a scuola. Senza dubbio parlare con le altre mamme, vedere le loro automobili di lusso, andare a trovarle nelle loro case spettacolari, aveva avuto la sua parte nel cambiamento.
Ma case come quella affascinavano anche lui. Glenn aveva l’impressione che le case emanassero una sorta di aura. Ce n’erano molte altre, in quella zona e ovunque in città, altrettanto grandi e pretenziose, ma che davano comunque l’impressione di essere abitate da bravi cittadini onesti. Soltanto di rado si vedeva un posto come quello, così sfacciatamente sfarzoso da suscitare subito, se non di proposito, il sospetto che fosse stato acquistato con denaro sporco.
“Ti piacerebbe vivere qui, Bella?” domandò.
“Mi ci potrei adattare, sì”, rispose lei con un sorriso, poi assunse un’espressione pensierosa.
Lui la guardò di sottecchi. Era bella, con un viso vivace sotto una chioma scarmigliata di capelli castani, e non aveva la fede al dito. Portava sempre abiti leggermente fuori moda, un po’ trasandati, come se non fosse interessata ad apparire carina, e Glenn avrebbe tanto voluto poter dire la sua e farla vestire in un altro modo. Quel giorno indossava una camicetta bianca sotto un normalissimo maglione a V blu scuro, pantaloni neri di lana, scarpe nere e un cappotto di lana verde.
Non parlava mai della sua vita privata e Glenn si chiedeva spesso chi ci fosse ad aspettarla a casa. Un uomo, una donna, un gruppo di coinquilini? Uno dei suoi colleghi, una volta, aveva detto che Bella si occupava della madre anziana, ma lei non ne aveva mai fatto parola.
“Non ricordo di preciso dove abiti”, disse mentre scendevano dalla macchina. Una raffica di vento gli sollevò i lembi del cappotto di cammello.
“Ad Hangleton”, rispose Bella.
“Ah, sì, giusto.”
Poteva starci. Hangleton era un complesso residenziale molto tranquillo a est della città, tagliato in due dall’autostrada e da un campo da golf. C’erano numerose casette, bungalow e i giardini erano molto curati. Era proprio la zona tranquilla e sicura in cui una donna poteva vivere in compagnia della madre anziana. D’un tratto, Glenn visualizzò un’immagine un po’ triste di Bella a casa sua che si prendeva cura di una signora malata e fragile, compensando le carenze affettive con i suoi cioccolatini preferiti. Come uno sconsolato cucciolo in gabbia.
Suonò il campanello e una cameriera filippina li fece entrare e li condusse attraverso un’aranciera dal soffitto alto con vista su prati a terrazza dove spiccavano una piscina enorme e un campo da tennis.
Vennero fatti accomodare in due poltrone sistemate intorno a un tavolino di marmo e venne loro offerto da bere. Poi Stephen e Sue Klinger fecero il loro ingresso.
Stephen era un uomo alto, magro, dall’aria piuttosto fredda e di poco sotto i cinquant’anni, con capelli mossi che si stavano ingrigendo pettinati all’indietro; le sue guance erano un reticolo di venuzze rosse tipiche di chi beve troppo. Indossava un gessato e un paio di mocassini dall’aria costosa, e iniziò a guardare l’orologio subito dopo aver stretto la mano a Branson.
“Temo di dovermene andare tra dieci minuti”, disse, la voce dura e pacata, molto diverso dallo Stephen Klinger che avevano interrogato il giorno prima nel suo ufficio dopo quello che era chiaramente stato un lauto pranzo.
“Nessun problema, signore, abbiamo soltanto un altro paio di domande per lei e qualcuna per la signora Klinger. Apprezziamo il tempo che ci state dedicando.”
Diede una seconda occhiata di apprezzamento a Sue Klinger e lei fece una piccola smorfia, come se se ne fosse accorta. Era davvero bella, pensò Branson. Appena sopra i quaranta, in perfetta forma, con indosso una tuta di marca di cotone pettinato marrone e un paio di scarpe da ginnastica che sembravano appena uscite dalla scatola.
E con uno sguardo pieno di sottintesi. Uno sguardo che Branson colse due volte in rapida successione e fece del suo meglio per ignorare, aprendo il suo taccuino e decidendo di focalizzare tutta l’attenzione sugli occhi di Stephen Klinger, forse più facili da interpretare.
La cameriera entrò con acqua e caffè.
“Posso ricapitolare brevemente, signor Klinger? Per quanto tempo lei e Ronnie Wilson siete stati amici?” domandò Branson.
Gli occhi di Klinger si spostarono leggermente verso sinistra. “Siamo – eravamo – amici fin dall’adolescenza”, disse. “Ventisette – no – trent’anni. Più o meno.”
Come contro-prova, Branson chiese: “E ieri ci ha detto che il suo rapporto con la prima moglie, Joanna, era stato difficile, ma che con Lorraine le cose andavano meglio?”
Ancora una volta, gli occhi si spostarono appena verso sinistra prima che parlasse.
Quella era una tecnica di neurolinguistica che Glenn aveva imparato da Roy Grace, e che a volte trovava molto efficace per distinguere il vero dal falso nel corso di un interrogatorio. Il cervello umano è diviso in due emisferi, il destro e il sinistro, l’uno preposto alla memoria a lungo termine, l’altro ai processi creativi. Quando viene fatta una domanda, gli occhi di una persona tendono quasi sempre nella direzione dell’emisfero che si attiva in quel momento. Coloro la cui memoria risiede nell’emisfero destro, attivano il sinistro per il pensiero creativo; viceversa, chi ricorda con l’emisfero sinistro, ‘inventa’ con quello destro.
Glenn Branson aveva appena verificato che gli occhi di Stephen Klinger si muovevano verso sinistra in risposta a una domanda che richiedeva l’uso della memoria, e in merito alla quale era probabile dicesse la verità. Di conseguenza, se i suoi occhi si fossero mossi verso destra, si poteva desumere che stesse mentendo. La tecnica lasciava un certo margine di errore, ma poteva comunque dare indicazioni utili.
Sporgendosi in avanti mentre la cameriera posava sul tavolo la tazza e il piattino insieme a una lattiera di porcellana, Branson disse: “Signor Klinger, ritiene che Ronnie Wilson sarebbe stato capace di uccidere una delle sue mogli?”
L’espressione scioccata che apparve sul volto di Klinger era genuina. Così come quella, identica, che alterò i lineamenti della moglie. Quando rispose, i suoi occhi rimasero fissi al centro. “Non Ronnie, no. Aveva un brutto carattere, ma...” Si strinse nelle spalle, scuotendo la testa.
“Aveva un grande cuore”, aggiunse Sue. “Gli piaceva occuparsi dei suoi amici. Non credo proprio – no, di sicuro, non credo che ne fosse capace.”
“Possediamo delle informazioni che vorremmo condividere con voi. Per il momento, in via del tutto confidenziale, anche se nei prossimi giorni rilasceremo alla stampa una dichiarazione ufficiale.”
Branson guardò Bella, come per offrirle l’opportunità di prendere la parola, ma lei gli fece cenno di proseguire.
Glenn versò un po’ di latte nel caffè, poi disse: “Non sembra che Joanna Wilson sia mai arrivata negli Stati Uniti. Il suo corpo è stato ritrovato in un canale di scolo nel centro di Brighton venerdì sera. Era lì da diverso tempo, e dai primi accertamenti risulta essere stata strangolata.”
Entrambi i coniugi Klinger sembrarono ancora più sgomenti.
“Cazzo!”, sbottò Sue.
“È quella donna di cui parlava l’Argus lunedì?” domandò Stephen.
Bella annuì.
“Mi state dicendo che... che Ronnie ha avuto qualcosa a che fare con questa storia?” chiese Stephen.
“Se mi permette di continuare, signor Klinger”, insistette Branson, “ieri abbiamo scoperto che è stato ritrovato anche il corpo di Lorraine Wilson.”
Sue Klinger impallidì. “Nella Manica?”
“No, in un fiume poco distante da Melbourne, in Australia.”
I due rimasero seduti in silenzio a fissarlo, sbalorditi. Da qualche parte un telefono iniziò a squillare. Nessuno fece la mossa di andare a rispondere. Glenn sorseggiò il suo caffè.
“Melbourne?” disse infine Sue Klinger. “In Australia?”
“Come diavolo ha fatto ad arrivare lì dalla Manica?” domandò Stephen, completamente stupefatto.
Il telefono smise di squillare. “L’esame autoptico ha dimostrato che era morta soltanto da due anni, signor Klinger – quindi, pare proprio che non sia annegata nella Manica nel 2002.”
“E si è suicidata buttandosi in un fiume in Australia?” disse Stephen.
“Non credo”, rispose Glenn. “Aveva il collo rotto ed è stata rinvenuta nel bagagliaio di una macchina.” Evitò di aggiungere altro.
I coniugi Klinger erano immobili, intenti ad assorbire l’impatto di ciò che avevano appena saputo. Fu Stephen a rompere il silenzio. “Chi è stato? Perché? State dicendo che Joanna e Lorraine sono state uccise dalla stessa persona?”
“Non siamo ancora in grado di affermarlo, a questo stadio dell’indagine. Ma i due omicidi presentano alcuni elementi in comune.”
“Ma chi, chi avrebbe ucciso Joanna e poi Lorraine?” domandò Sue. Iniziò a giocherellare con un braccialetto d’oro che portava al polso, facendolo girare nervosamente.
“Sapevate che Joanna Wilson aveva ereditato una casa da sua madre e che l’ha venduta poco prima di morire?” domandò Glenn. “Le ha fruttato una somma di circa centosettantacinquemila sterline. Al momento stiamo cercando di risalire a ciò che è successo a quel denaro.”
“Probabilmente è stato usato per pagare i debiti di Ronnie non appena le è arrivato sul conto corrente”, disse Stephen. “Quel vecchio bastardo mi piaceva, ma non era molto portato per la contabilità, non so se mi spiego. Si arrabattava come un matto, ma trascurava i dettagli. Puntava sempre troppo in alto per le sue forze.”
“Sei troppo severo, Steve”, commentò Sue, voltandosi a guardare il marito. “Ronnie aveva delle ottime idee.” Guardò i due detective e si batté un dito sulla testa. “Aveva una mente creativa. Una volta ha inventato un aggeggio che estraeva l’aria dalle bottiglie di vino già aperte. Stava per brevettarlo quando quel coso – come si chiama? Ah sì, il Vacu Vin è uscito e ha occupato il mercato.”
“Sì, ma il Vacu Vin era di plastica”, disse Stephen. “Ronnie, il suo, l’aveva fatto in ottone, quello stupido. Chiunque avrebbe potuto dirgli che i metalli reagiscono con il vino.”
“Anche tu all’epoca gli dicesti che era un’idea intelligente, no?”
“Sì, ma io non avrei mai investito in nessuna delle trovate di Ronnie. L’ho fatto due volte, e tutte e due le volte è andata male.” Si strinse nelle spalle. “Ci vuole più di una buona idea per far funzionare un affare.” Guardò l’orologio e sembrò un po’ agitato.
“Signori Klinger”, intervenne Bella, “sapevate che Lorraine aveva ricevuto una grossa somma di denaro nei mesi immediatamente precedenti al suo presunto suicidio?”
Sue scosse la testa con vigore. “Impossibile. Sarei stata la prima a saperlo. Ronnie l’aveva lasciata nei guai, guai terribili, povera creatura. Aveva dovuto tornare a lavorare a Gatwick. Non riusciva a ottenere credito da nessuno a causa di tutti i procedimenti contro Ronnie. Non riusciva nemmeno a mettere insieme abbastanza soldi per comprarsi una macchina. A un certo punto, le ho prestato io stessa qualche centinaio di sterline per darle una mano.”
“Be’, allora quanto sto per dirvi vi sorprenderà”, disse Glenn. “Ronnie Wilson aveva stipulato una polizza di assicurazione sulla vita con la Norwich Union, che versò poco più di un milione e mezzo di sterline a Lorraine Wilson nel marzo del 2002.”
Il loro shock fu totale. Poi Glenn affondò il colpo.
“Inoltre, nel luglio di quello stesso anno, la signora Wilson ricevette un indennizzo di quasi due milioni e mezzo di dollari dal fondo di risarcimento per le vittime dell’undici settembre. Al tasso di cambio dell’epoca, si tratta di circa un milione e settecentocinquantamila sterline.”
Ci fu un lunghissimo silenzio.
“Non ci credo. Non riesco proprio a crederci...” Sue scosse la testa. “Sapevo, quand’è scomparsa, che la polizia nutriva dei dubbi sul fatto che si fosse suicidata buttandosi dal traghetto. Non ci dissero perché. Forse erano al corrente di qualcosa di cui noi eravamo all’oscuro. Ma io e Stephen, e tutti gli amici di Lorraine, eravamo convinti che fosse morta, e da allora nessuno di noi ne ha più avuto notizie.”
“Se quello che state dicendo è vero, questa è...” Stephen Klinger si interruppe a metà della frase.
“Ha prelevato tutto, in contanti, in poche operazioni, tra il giorno in cui ha ricevuto i soldi e il giorno in cui è scomparsa nel novembre del 2002”, aggiunse Bella.
“In contanti?” le fece eco Stephen Klinger, incredulo.
“Avete idea, per caso, se i Wilson – o più probabilmente Ronnie – fossero ricattati da qualcuno?” domandò Glenn.
“Io e Lorraine eravamo molto amiche”, disse Sue. “Credo che me l’avrebbe detto – sapete – che si sarebbe confidata con me.”
Come si è confidata con te a proposito dei tre milioni e duecentocinquantamila sterline? pensò Glenn.
All’improvviso, Stephen Klinger sollevò un dito in aria. “Una cosa ci sarebbe... e può essere che sia stato Ronnie a insegnargliela. A lui piaceva commerciare in francobolli.”
“Francobolli?” disse Grace, incredulo. “Intende... quelli della posta?”
Stephen Klinger annuì. “Francobolli rari. Ci trafficava di continuo. Diceva che così il fisco faceva più fatica a tenere traccia dei suoi guadagni.”
“Tre milioni e passa di sterline equivalgono a una quantità enorme di francobolli”, disse Bella.
Stephen scosse la testa. “Non necessariamente. Ricordo che una sera, in un pub, Ronnie ha aperto il portafogli e mi ha mostrato questo francobollo, in carta filigranata... un unico francobollo che aveva pagato cinquantamila sterline. Diceva di avere un compratore che gliel’avrebbe acquistato per sessantamila. Ma, conoscendo la sua fortuna, probabilmente alla fine ne ha prese quarantamila.”
“Avete idea di dove il signor Wilson conducesse le sue transazioni riguardanti i francobolli?”
“Ci sono dei commercianti locali di cui mi disse che si serviva, per i pezzi meno preziosi. So che faceva affari con un posto chiamato Hawkes in Queen’s Road, qualche volta. E con un paio di posti di Londra, e anche a New York. Ah sì, e parlava sempre di un grosso collezionista-commerciante che agiva da casa sua, per conto proprio – non riesco a ricordare il nome. Appena dietro l’angolo, in Dyke Road. Qualcuno da Hawkes ve lo saprà dire di sicuro.”
Glenn prese nota del nome.
“Diceva sempre che il mercato di punta dei francobolli è un mondo molto piccolo. Se un commerciante o un collezionista realizza una vendita consistente, tutti lo vengono a sapere. Quindi, se Lorraine ha investito una somma del genere nell’acquisto di francobolli, qualcuno se ne ricorderà di certo.”
“E, probabilmente”, aggiunse Bella, “qualcuno si ricorderà anche se li ha venduti.”