26.

11 settembre 2001

Ronnie stava correndo da circa un minuto quando il giorno si trasformò in notte, come durante un’eclissi. Improvvisamente si ritrovò ad arrancare in un nulla soffocante e puzzolente, con il boato dei tuoni nelle orecchie, tuoni che provenivano dal terreno sotto di lui.

Era come se qualcuno avesse rovesciato un miliardo di tonnellate di farina nera, fetida e dal sapore orribile nel cielo proprio sopra di lui. Gli faceva bruciare gli occhi, gli riempiva la bocca. Ronnie ne inghiottì un poco e la tossì subito, e immediatamente ne dovette respirare altra. Sagome grigie come spettri gli vorticavano intorno. Picchiò con dolore la punta del piede contro qualcosa – un idrante, si rese conto subito dopo –, inciampò e cadde in avanti, picchiando con forza contro l’asfalto. Il terreno si muoveva. Vibrava, sussultava, come se un mostro gigantesco si fosse svegliato e si stesse liberando dal ventre stesso della terra.

Devo uscire da qui. Devo andarmene da qui.

Qualcuno gli calpestò la gamba e gli cadde addosso. Udì una voce di donna che imprecava e si scusava, e colse un rapido sentore del suo profumo. Si liberò di lei, divincolandosi, tentò di alzarsi e subito qualcun altro gli andò a sbattere contro la schiena, spingendolo di nuovo in avanti.

In preda al panico, iperventilando, si alzò in piedi e vide la donna – che sembrava un pupazzo di neve grigio con in mano un paio di scarpe – alzarsi davanti a lui. Poi un uomo enorme, grasso, con i capelli sparati in tutte le direzioni gli urtò contro, gridò un insulto, lo scansò con uno spintone e corse via per essere nuovamente inghiottito dalla nebbia.

Venne scaraventato di nuovo a terra. Devo alzarmi. Devo alzarmi. Alzarmi!

Nella mente gli turbinavano ricordi di articoli che aveva letto sulla gente calpestata e schiacciata da una folla impazzita. Lottò per rialzarsi, ci riuscì, si voltò, vide altre sagome che sbucavano dall’oscurità. Un’altra spinta lo gettò carponi. Ronnie scrutò tra la folla di gambe, scarpe e piedi nudi in cerca della valigia e della borsa, le vide, si allungò ad afferrarle entrambe, poi finì di nuovo lungo disteso.

“Vaffanculo!” gridò.

Un tacco a spillo gli passò sopra la testa come un’ombra acuminata.

Poi, improvvisamente, il silenzio.

Il rombo era cessato. Il tuono taceva. Il terreno aveva smesso di vibrare. Anche le sirene non ululavano più.

Per un istante, provò un senso di gioia. Stava bene! Era ancora vivo!

Ora la gente camminava più lentamente, in modo più ordinato. Alcuni zoppicavano. Altri si tenevano l’un all’altro. Alcuni avevano schegge di vetro nei capelli, simili a cristalli di ghiaccio. Il sangue era l’unico colore in un mondo altrimenti grigio e nero.

“Non sta succedendo”, sentì dire a una voce maschile vicino a lui. “Non sta succedendo davvero.”

Ronnie poteva vedere la Torre Nord e, sulla destra, una montagna di detriti contorti e fumanti, pezzi di cemento, intelaiature di finestre, macchine schiacciate, veicoli in fiamme, corpi spezzati che giacevano immobili sul terreno chiazzato di sangue. Poi vide il cielo occupare il luogo in cui avrebbe dovuto esserci la Torre Sud.

Dove c’era stata la Torre Sud.

La Torre non c’era più.

Tre minuti prima era lì, e adesso era sparita. Sbatté le palpebre, per assicurarsi che non fosse una sorta di trucco, un’illusione ottica, e altra polvere gli finì negli occhi, facendoli lacrimare.

Stava tremando, squassato dai brividi dalla testa ai piedi. Ma, più che altro, tremava dentro.

Qualcosa attirò la sua attenzione. Cadeva dall’alto, sventolando. Si sollevò per un istante, catturata da una corrente ascensionale, poi riprese la discesa. Un pezzo di tessuto. Sembrava uno di quei panni morbidi che ti danno all’acquisto di un nuovo computer portatile per non graffiare lo schermo quando lo chiudi.

Lo osservò cadere giù giù fino a terra come una farfalla morta. Atterrò a pochi metri da lui e, per un istante, nel caos che gli regnava nel cervello, si chiese se valesse la pena di raccoglierlo, perché da tempo aveva perso il suo.

Altra gente gli passava davanti. Una fila senza fine, tutti in nero e bianco e grigio, come un vecchio documentario di guerra che mostrava i profughi in marcia. Credette di udire un telefono che squillava. Era il suo? In preda al panico, si controllò la tasca. Il cellulare era ancora lì, grazie a Dio! Lo tirò fuori, ma non stava squillando e non c’era nessun avviso di chiamata persa. Tentò di nuovo di chiamare Lorraine, ma non c’era segnale, soltanto il vuoto messaggio di occupato che, dopo pochi secondi, venne cancellato dal tonfo ritmico dei rotori di un elicottero che gli volava proprio sopra la testa.

Non sapeva cosa fare. I suoi pensieri erano incoerenti. C’era gente ferita e lui stava bene. Forse avrebbe dovuto cercare di aiutare le persone. Forse avrebbe trovato Donald. Dovevano aver evacuato il grattacielo. Di sicuro avevano tirato fuori tutti prima che crollasse. Donald era lì da qualche parte, magari stava cercando proprio lui. Se si fossero incontrati, potevano andare in un bar o in un albergo e tenere comunque il loro incontro...

Un camion dei pompieri lo sfiorò suonando il clacson. Ci mancò poco che lo investisse, prima di scomparire in un frastuono di sirene e clacson e luci lampeggianti.

“Bastardi!” gridò. “Stronzi, mi avete quasi ucci...”

Un gruppo di donne di colore ricoperte di polvere grigia, una che reggeva una sacca, un’altra che si massaggiava la sommità della testa coperta di dreadlocks, avanzò verso di lui.

“Scusate?” disse Ronnie, sbarrando loro la strada.

“Continua a camminare”, gli rispose una di loro.

“Sì”, disse un’altra. “Non andare da quella parte!”

Passarono altri veicoli di emergenza. Il terreno scricchiolava. Neve di carta sotto i suoi piedi, si rese conto Ronnie. La società senza carta, pensò cinicamente. Ecco dove finisce la società senza carta. L’intera strada era sepolta sotto una coltre di carta grigia. Il cielo era oscurato da fogli di carta in volo, che zigzagavano verso il basso. Fogli bianchi, scritti, a brandelli, di ogni forma e formato immaginabili. Come se da una nuvola un miliardo di archivi e di cestini avessero rovesciato sulla terra il loro contenuto.

Si fermò per un istante, tentando di pensare con chiarezza. Ma l’unico pensiero che gli girava nella mente era: Perché oggi? Perché cazzo proprio oggi?

Perché questa merda doveva succedere proprio oggi?

New York era sotto un qualche attacco terroristico, almeno quello era ovvio. Una vocina nella sua testa gli disse che avrebbe dovuto essere spaventato, ma lui non lo era, era solo incazzato nero.

Si lanciò in avanti, calpestando carta, oltrepassando una persona stordita dopo l’altra, persone che venivano da ogni direzione. Poi, mentre si avvicinava al casino totale che regnava nella piazza, venne fermato da due poliziotti del dipartimento di New York. Il primo era basso con i capelli corti e biondi: la mano destra era posata sul calcio della Glock, mentre la sinistra reggeva una ricetrasmittente in cui stava parlando. Strillava il suo rapporto, poi taceva per ascoltare. L’altro poliziotto, molto più alto, aveva spalle larghe come un giocatore di football, la faccia butterata e un’espressione che era in parte di scusa e in parte non rompermi i coglioni, siamo già abbastanza incasinati.

“Mi dispiace, signore”, disse il poliziotto più alto. “Non può passare di qui, al momento questo spazio ci serve.”

“Ho una riunione d’affari”, disse Ronnie. “Io... io...” indicò davanti a sé. “Io devo vedere...”

“Credo che farebbe meglio a rimandare. Non credo che ci possano essere delle riunioni, al momento.”

“Il fatto è che ho un volo da prendere stasera per Londra. Ho davvero bisogno di...”

“Signore, credo che scoprirà che la sua riunione e il suo volo sono stati cancellati.”

Poi il terreno ricominciò a tremare. Si udì un rumore terrificante. I due poliziotti si voltarono nello stesso istante e guardarono in alto, verso la parete verticale grigio-argentea della Torre Nord.

Si stava muovendo.

Doppia identità
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