28.
Settembre 2007
Il lamento metallico dell’argano. Il brontolio del motore diesel del carro attrezzi della R&K Soccorso 24 ore su 24.
Lisa scacciò un intero maledetto sciame di mosche. “Andatevene!”, gridò agli insetti. “Lasciatemi in pace, okay?”
Il brontolio si trasformò in un ruggito mentre il cavo di traino d’acciaio si tendeva e il tipo nella cabina accelerava, dando più potenza all’argano.
Lisa era curiosa di sapere cosa sarebbe accaduto ora. Di scoprire che cosa ci faceva quella macchina nel fiume. Nessuno guidava per tre chilometri su una strada sterrata e poi finiva nel fiume per sbaglio, aveva detto MJ. Poi aveva aggiunto: “Nemmeno una donna al volante”, commento che gli era costato un bel calcio negli stinchi da parte di Lisa.
Uno dei poliziotti della cittadina di Geelong che avevano risposto alla chiamata, quello più basso e più calmo dei due, disse loro che probabilmente la macchina era stata usata per commettere un crimine e poi abbandonata. Chiunque se ne fosse sbarazzato non aveva tenuto conto della siccità che aveva fatto abbassare il livello del fiume.
Una mosca le si posò su una guancia. Lisa si diede uno schiaffo, ma la mosca era troppo veloce. Per le mosche il tempo era differente, le aveva detto una volta MJ. Un secondo di un essere umano equivaleva a dieci secondi per una mosca. Questo voleva dire che la mosca vedeva ogni cosa come fosse al rallentatore. Aveva tutto il tempo che le serviva per scappare dalla tua mano.
MJ sapeva tutto delle mosche. Non c’era da stupirsi, pensava Lisa, se uno vive a Melbourne e ama andare in giro per i boschi. Si diventa esperti più alla svelta di quanto si possa credere possibile. Le mosche si riproducono negli escrementi, le aveva detto l’ultima volta che erano andati insieme in campeggio, e da allora Lisa aveva smesso di mangiare qualsiasi cosa su cui si fosse posata una mosca.
Guardò la macchina della polizia con la banda a scacchi bianchi e azzurri sulla fiancata, e il furgone bianco della polizia con la stessa livrea, entrambi dotati di due file di lampeggianti rossi e blu sul tetto. Sotto di lei, tra i cespugli sulla riva del fiume, c’erano due sommozzatori della polizia in muta e pinne e con le maschere appoggiate alla fronte a osservare il cavo d’acciaio ben fissato che usciva dall’acqua.
Le mosche, però, rendevano anche un servizio. Aiutavano a eliminare le cose morte: uccelli, conigli, canguri e anche esseri umani. Erano le Piccole Aiutanti di Madre Natura. Avevano delle pessime maniere a tavola, tipo l’abitudine di vomitare sul cibo prima di mangiarlo. In fin dei conti, non proprio ideali per un invito a cena, decise Lisa.
Il sudore le colava sul viso. MJ le teneva un braccio intorno alle spalle e con l’altra mano teneva la bottiglia d’acqua che stavano bevendo insieme. Lisa gli teneva il braccio intorno alla vita, le dita infilate nella cintura dei pantaloni, e sentiva l’umido del sudore sulla sua maglietta. Le mosche adoravano bere il sudore umano, quella era un’altra piccola perla che MJ le aveva insegnato. Il sudore non conteneva molte proteine, ma i sali minerali di cui le mosche avevano bisogno. Il sudore umano, nel mondo delle mosche, era l’equivalente della Perrier, o della Badoit, o di qualsiasi acqua minerale preferissi.
Le acque del fiume, appena oltre il punto in cui era entrato il cavo d’acciaio, si trasformarono all’improvviso in un ammasso di mulinelli. Sembrava stesse bollendo. Grosse bolle si ruppero sulla superficie, trasformandosi in schiuma. Il poliziotto più alto, il più agitato dei due, continuava a gridare istruzioni che a Lisa sembravano superflue, visto che ognuno sembrava sapere esattamente cosa fare. Sui quaranta, immaginava Lisa, il poliziotto aveva i capelli a spazzola e il naso aquilino. Sia lui che il collega indossavano camicie aperte di ordinanza con le mostrine e uno stemma ricamato della Polizia di Victoria su una manica, pantaloni blu navy e scarponi pesanti. Le mosche si stavano accanendo anche su di loro.
Lisa osservò il posteriore di una station wagon verde scuro rompere la superficie, rovesciando intorno una cascata d’acqua che lei poté udire al di sopra del rumore dell’argano e del rombo del motore del carro attrezzi. Lesse la targa, OPH 010, e la scritta stampigliata sotto il numero: VICTORIA ON THE MOVE.
Da quanto tempo era là sotto?
Non era un’esperta di macchine, ma ne sapeva qualcosa. Abbastanza da riconoscere che quella era una Ford Falcon vecchio modello, risalente ad almeno cinque – se non dieci – anni prima. Poco dopo apparve il lunotto posteriore, poi fu la volta del tetto. La vernice era scintillante a causa dell’acqua, ma tutte le cromature erano arrugginite. Le gomme, quasi completamente sgonfie, scricchiolarono sul terreno mentre la macchina veniva trainata lungo il pendio.
Era uno spettacolo agghiacciante, pensò Lisa.
Dopo diversi minuti, la Ford Falcon fu finalmente al livello della strada, immobile sui cerchioni, gli pneumatici come nere budella. Il cavo si era allentato, e il conducente del carro attrezzi era in ginocchio sotto il paraurti posteriore, intento a sganciarlo. Il rumore dell’argano era cessato e il motore era spento. Si udiva soltanto lo scroscio lieve dell’acqua che ancora fuoriusciva dall’automobile.
I due poliziotti girarono intorno alla macchina, scrutando attentamente dentro i finestrini. Quello più alto teneva la mano sul calcio della pistola, quasi si aspettasse che qualcuno potesse balzare fuori dalla macchina da un momento all’altro per aggredirlo. L’altro scacciò altre mosche agitando una mano. Un uccello giardiniere lanciò il suo richiamo nel rinnovato silenzio.
Poi il poliziotto più alto premette il pulsante di rilascio del cofano. Non accadde nulla. Tentò di nuovo, facendo contemporaneamente leva sul cofano. La lamiera si sollevò di qualche centimetro, emettendo un acuto stridio di protesta dai cardini arrugginiti. L’agente afferrò un bordo del cofano e lo aprì del tutto.
E fece un passo indietro, scioccato, sentendo l’odore di ciò che c’era dentro prima ancora di vederlo.
“Oh, cavolo!” disse, voltandosi in preda a un conato.