62.

Ottobre 2007

Coglione!

Cassian Pewe era a Sussex House da un paio di giorni, ma a Tony Case, l’Ufficiale di Supporto, erano bastati tre minuti per capire che tipo fosse.

Case, a sua volta un ex poliziotto, gestiva l’amministrazione di quel palazzo e degli altri tre edifici che ospitavano tutte le Squadre Anticrimine del Sussex – a Littlehampton, Horsham e Eastbourne. I suoi compiti comprendevano la valutazione di rischio delle retate, il budget delle richieste della scientifica e delle nuove attrezzature e l’amministrazione generale, oltre alla fornitura di tutto il necessario a quanti lavoravano lì.

Come, per esempio, i ganci per le cornici.

“Senta”, disse Pewe, come se si stesse rivolgendo a un idiota, “voglio quel gancio spostato dieci centimetri verso destra e quindici centimetri più in alto, d’accordo? E quest’altro voglio che venga posizionato esattamente ventitré centimetri più in alto. Ha capito? Non mi sembra che stia prendendo appunti.”

“Forse preferisce che le porti una scorta di ganci, un martello e un righello così può metterseli su da solo?” suggerì Case. Era quello che faceva ogni altro ufficiale, compreso il Soprintendente Capo.

Pewe, che si era tolto la giacca del completo e l’aveva appesa allo schienale della poltroncina, indossava bretelle rosse sopra la camicia bianca. Ora stava camminando avanti e indietro per la stanza, facendole schioccare. “Non mi occupo di fai-da-te”, disse. “E non ho tempo. Dev’esserci qualcuno, qui, incaricato di queste cose.”

“Sì”, disse Tony Case. “Io.”

Pewe stava guardando fuori dalla finestra, lo sguardo sul cupo edificio di custodia. Stava smettendo di piovere. “Non è una bella vista”, si lamentò.

“Il Soprintendente Investigativo Grace ne era più che soddisfatto.”

La faccia di Pewe assunse un colore strano, come se avesse appena inghiottito qualcosa a cui era allergico. “Questo era il suo ufficio?”

“Sì.”

“Ha una vista veramente pidocchiosa.”

“Forse, se fa una telefonata alla Vicecapo Vosper, farà demolire l’ala di custodia per lei.”

“Non è divertente”, disse Pewe.

“Divertente?” ribatté Tony Case. “Non sto facendo dello spirito. Sto lavorando. Qui non facciamo dell’umorismo, ma solo serio lavoro di polizia. Andrò a prenderle un martello – se nessuno se l’è fregato.”

“E i miei assistenti? Ne ho chieste due. Loro dove li metto?”

“Nessuno mi ha parlato di due assistenti.”

“Ho bisogno di più spazio per loro. Dovranno sedersi da qualche parte abbastanza vicini a me.”

“Posso procurarle una scrivania più piccola”, disse Tony Case. “E sistemarli tutti e due qui dentro.” Se ne andò.

Pewe non riusciva a capire se quell’uomo stava scherzando oppure faceva sul serio, ma i suoi pensieri vennero interrotti dallo squillo del telefono. Rispose in tono sussiegoso: “Soprintendente Investigativo Pewe.”

Era un ispettore. “Signore, ho in linea un agente dell’Interpol. Per conto della Polizia di Victoria, in Australia. Ha chiesto specificatamente di parlare con qualcuno che si occupa dei casi irrisolti.”

“D’accordo, me lo passi.” Si sedette, prendendosi tutto il tempo necessario, e mise i piedi sulla scrivania, nello spazio angusto tra due pile di documenti. Poi si portò il telefono all’orecchio. “Soprintendente Investigativo Cassian Pewe”, disse.

“Ah, buon giorno, ehm... Cashon, sono il sergente James Franks dell’ufficio dell’Interpol a Londra.”

Franks aveva un accento da scuola privata. A Pewe non piaceva la tendenza di quegli scribacchini sedentari dell’Interpol a sentirsi superiori e a fare i duri con gli altri agenti di polizia.

“Mi dia il suo numero e la richiamo”, disse Pewe.

“Va bene così, non c’è bisogno.”

“Questioni di sicurezza. È la nostra politica, qui nel Sussex”, disse Pewe in tono solenne, provando piacere nell’esercitare il suo poco potere.

Franks ricambiò il complimento facendogli ascoltare una serie infinita di ripetizioni di Nessun Dorma per quattro minuti buoni prima di rispondere. E sarebbe stato ancora più soddisfatto se avesse saputo che quella era un’aria che Pewe, un purista fanatico di opera e di musica classica, detestava in modo particolare.

“Okay, Cashon, il nostro ufficio è stato contattato dalla polizia della periferia di Melbourne, in Australia. A quanto ne so, hanno recuperato il corpo di una donna incinta non identificata dal bagagliaio di una macchina – era nel fiume da circa due anni e mezzo. Hanno prelevato dei campioni di dna dalla donna e dal feto, ma non sono riusciti a trovare nessuna corrispondenza nei database australiani. Ma c’è una cosa...”

Franks fece una pausa e Pewe udì un risucchio, come se stesse bevendo del caffè.

Poi riprese: “La donna aveva protesi di silicone al seno. A quanto mi pare di capire, le protesi sono contrassegnate dall’identificativo del fabbricante, e su ognuna c’è un numero di serie che viene registrato nella cartella clinica insieme al nome della ricevente. Questo lotto di protesi è stato consegnato a un ospedale... il Nuffield Hospital, a Woodingdean, nella citta di Brighton e Hove, nel 1997.”

Pewe tolse i piedi dalla scrivania e si mise a cercare con lo sguardo un blocco per appunti, invano. Alla fine, adoperò il retro di una busta per scrivere qualche dettaglio. Poi chiese a Franks di inviargli via fax le informazioni sulle protesi e sulle analisi del dna sia della madre che del feto, promettendogli che avrebbe iniziato a indagare da subito. Poi gli fece notare in tono piccato che il suo nome era Cassian, non Cashon, e riattaccò.

Aveva davvero bisogno di un agente giovane che gli facesse da assistente. Aveva cose ben più importanti da fare che occuparsi di una sconosciuta annegata in un fiume australiano.

E una di queste cose era molto più importante.

Doppia identità
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