Capitolo 92

 

 

 

 

 

Candida rosa, 6 febbraio. 16:05.

 

Sforza corse a testa bassa sulla neve.

Dopo aver immobilizzato e imbavagliato il mercenario che l’aveva aggredito, aveva deciso che doveva avvicinarsi al punto dello scavo.

Non sapeva esattamente come agire, ma era certo che rimanere nella stessa posizione fosse troppo pericoloso: prima o dopo, chi aveva dato l’ordine di ucciderlo avrebbe chiesto lumi al soldato che lui aveva neutralizzato.

Mentre avanzava circospetto, riparandosi dietro i costoni di pietra lavica disseminati sulla distesa, rifletteva: non era stato solo fortunato, era stato anche molto bravo. Riuscire a sfilare il caricatore da un fucile mitragliatore non era un’impresa semplice, tanto più senza farsi sorprendere. Era stato velocissimo, molto più di quanto lui stesso avrebbe creduto possibile.

Appena l’uomo gli aveva puntato addosso il mitragliatore, pronto a sparare, Sforza gli aveva mostrato il caricatore. Con un sorriso ebete sul viso si era alzato e, minacciandolo con la pistola, l’aveva fatto inginocchiare. Poi aveva estratto dalla tasca un paio di manette e l’aveva costretto a infilarsele. Aveva completato il lavoro infilandogli un fazzoletto in gola e stringendogli la sua sciarpa attorno alla testa.

Trenta secondi dopo si era spostato verso l’escavatore, che adesso era a una cinquantina di metri da lui. L’unica cosa che riusciva a distinguere con precisione dalla sua posizione era il braccio meccanico. Si acquattò dietro una roccia e cercò di studiare la situazione.

Più bassi rispetto al livello del terreno c’erano almeno una decina di uomini, alcuni armati, altri con volti trasfigurati dalla paura.

Alzando lo sguardo riusciva anche a vedere, sulla sinistra dello scavo, accanto a un masso con la vaga forma di un parallelepipedo, altri ostaggi immobili.

E a quel punto udì qualcosa di insolito.

Voltò il capo, guardando verso la strada, e il rumore gli parve più nitido: sembrava un grosso calabrone che volava nella sua direzione.

Improvvisamente, da oltre un fronte nuvoloso che si stava avvicinando da nord, individuò un puntino luccicante che volava a tutta velocità verso di lui: un elicottero.

Dopo qualche istante, il velivolo rallentò. Non impiegò molto a capire che si era fermato più o meno sopra il punto in cui aveva lasciato l’auto, ad alcune centinaia di metri da lì.

Estrasse dal giubbotto il piccolo binocolo Z-Nav e inquadrò meglio il velivolo: era bianco e blu e sembrava un monomotore. Aveva cominciato a girare in tondo e pareva essersi abbassato ancora. Il portellone di destra venne aperto in quell’istante.

 

Il pilota dell’AgustaWestland AW119, individuò il pick-up noleggiato da Sforza sul bordo di una caldera coperta di rocce innevate.

A nord si notavano massi grossi come automobili, e nelle immediate vicinanze una distesa ghiacciata pianeggiante, dalla quale probabilmente era arrivata l’auto.

Il velivolo si abbassò, ruotando su se stesso e cercando di mantenere una posizione stabile.

La neve sul terreno cominciò a sollevarsi e a vorticare.

Il portellone dell’elicottero fu fatto scorrere e una ventata di aria gelida invase l’abitacolo. Fu calata una speciale corda e uno dei quattro uomini cominciò a scendere verso il terreno.

Tanaka inforcò gli occhiali da sole e si preparò a seguirlo. «Laggiù c’è movimento. Andate a verificare», urlò rivolto al pilota quando aveva già la cima tra le dita.

L’uomo annuì e fece un cenno di ok con la mano. Poi vide un’auto bianca che si allontanava da una zona di scavo e un altro veicolo identico, fermo e con gli sportelli aperti.

Un istante dopo, il giapponese tirò la fune e cominciò a calarsi, aggrappandosi con tutte le sue forze alla corda.

Nel frattempo, il giovane che l’aveva preceduto era ormai giunto a terra e adesso cercava di tenere ferma la cima per rendere la discesa ancora più semplice.

L’elicottero rimase immobile, come sospeso, soltanto per pochi secondi. Nonostante il forte spostamento d’aria, Tanaka non ebbe difficoltà ad arrivare a terra.

Quando i suoi scarponi toccarono il ghiaccio, gesticolò con le mani e l’AW119 si alzò.

 

La Toyota Land Cruiser era ferma, con il motore acceso, centocinquanta metri a ovest della candida rosa.

Il capo dei mercenari, non avendo più avuto notizie da uno dei suoi uomini era tornato indietro a cercarlo. E l’aveva trovato, ammanettato, ai piedi di un costone innevato.

Proprio mentre con due compagni gli si avvicinava per liberarlo, l’elicottero si era diretto verso di loro.

«Non muovetevi!», ordinò una voce dal megafono, pochi istanti più tardi.

«A che punto siete?», urlò con ansia il militare, imbracciando l’M4.

L’AgustaWestland aveva cominciato a girare sopra di loro e il rombo del motore, unito allo spostamento d’aria, non gli consentì di udire la risposta.

Indietreggiò di qualche passo, dando le spalle ai suoi compagni e puntando il fucile mitragliatore verso la pancia dell’elicottero.

«A che punto siete?», ripeté, voltandosi per una frazione di secondo.

Due colleghi stavano aiutando il mercenario tramortito da Sforza. Lo sollevarono di peso e si avvicinarono alla Toyota.

«Non fate un altro passo», ingiunse dal megafono la voce. «Giù le armi».

Ma i mercenari non gli diedero retta. Il ferito fu sistemato sul sedile posteriore e gli altri lo seguirono. Non passò un secondo che l’auto fece inversione e, in uno stridio di pneumatici, partì a tutta velocità.

E a quel punto, successe ciò che nessuno di loro si era augurato. Una raffica di mitra proveniente dall’AW119 piombò davanti al veicolo, mancandolo ma sollevando schegge di ghiaccio dal terreno che scalfirono il parabrezza.

L’autista girò di colpo, in una sorta di zig-zag che aveva l’improbabile fine di schivare le pallottole. Un istante dopo, una fila di fori squarciò in due il cofano dell’auto.

Ma non fu sufficiente a fermarla. Ormai la Toyota era lanciata a tutta velocità verso la strada principale, dove l’altra auto li stava aspettando.

L’elicottero ruotò su se stesso, si inclinò e cominciò a seguirla facendo fuoco con la mitragliatrice.

 

Hidetoshi Tanaka, accanto al pick-up di Sforza, individuò il borsone con la scritta Geosync proprio mentre i primi colpi risuonarono nell’aria.

Prima di rompere il finestrino, aveva fatto qualche giro di perlustrazione attorno al veicolo. Sul sedile anteriore si vedevano residui di cibo e un bicchiere di caffè. Non c’era traccia del dispositivo che l’ispettore gli aveva sottratto a Reykjavik.

Poi, tra il sedile anteriore e quello posteriore, aveva visto il logo della Geosync e l’aveva riconosciuto: quella era la borsa che il principe Ibrahim aveva portato con sé all’Harpa, il giorno precedente.

Tanaka fece cenno al suo collega, sceso prima di lui, di spostarsi ed estrasse la Walther. Premette il grilletto ed esplose tre colpi a distanza ravvicinata. Il finestrino del pick-up si disintegrò e pezzetti di cristallo schizzarono al suo interno.

Subito dopo, con la foga di un affamato davanti a un banchetto nuziale, spalancò la portiera e prese la borsa. La portò sul ghiaccio, schermandosi gli occhi con la mano per difendersi dal sole ormai basso, e la aprì.

Per un istante rimase immobile, a studiare il borsone apparentemente vuoto, poi infilò la mano ed estrasse un foglietto piegato in quattro parti.

 

Questo è solo l’antipasto. Gli OCST sono già in mio possesso, ma li avrai a lavoro compiuto.

 

Tanaka imprecò fra sé, furibondo, mentre il rombo dell’elicottero e i colpi di mitragliatrice si facevano sempre più vicini.

«Abbiamo ciò che cercavamo?», gridò il giovane che era sceso con lui dal velivolo. Teneva una pistola mitragliatrice Heckler & Koch MP7 tra le mani e indietreggiava a piccoli passi verso l’auto.

L’elicottero, intanto, si stava avvicinando alla loro posizione fendendo l’aria di proiettili.

Il giovane si voltò verso Tanaka.

Il giapponese era inginocchiato sul ghiaccio, un foglio di carta stretto tra le mani. Improvvisamente scattò in piedi abbandonando il borsone per terra. Si abbassò gli occhiali e sembrò scrutare l’orizzonte. «Laggiù», mormorò, indicando la benna di un escavatore a poca distanza.

Un istante dopo un fischio assordante, proveniente da oltre un crinale, lo costrinse a voltarsi dalla parte opposta, verso il velivolo.

 

Dopo che il Toro se ne era andato a bordo della sua Jeep, la seconda Toyota dei mercenari si era diretta verso il Langjökull.

Non vedendo arrivare i loro colleghi, gli uomini si erano però fermati oltre un crinale battuto da un vento gelido.

Da lì avevano udito i primi spari e avevano visto l’altra Toyota compiere una manovra a zig-zag inseguita dall’elicottero.

Non si erano soffermati a pensare chi potesse esserci a bordo del velivolo, dando per scontato che si trattasse delle forze dell’ordine.

Il mercenario seduto sul sedile anteriore era così sceso e aveva aperto il portabagagli. All’interno c’era un lanciarazzi portatile anticarro RPG-7. Si trattava di un tubo con due impugnature, costruito in epoca sovietica, che lanciava a trecento metri al secondo proiettili grossi come bottiglie di champagne.

L’uomo lo estrasse dalla sua custodia, caricò uno dei due razzi che erano sistemati nel contenitore a fianco e se lo mise in spalla.

Si accostò al mirino ottico, trattenne il fiato e premette il grilletto.

Il proiettile fu sparato verso il cielo con un sibilo inconfondibile, rilasciando il suo gas di scarico nell’aria rarefatta. Una striscia bianca a forma di arco si disegnò nel cielo, finché una luce abbagliante non ne interruppe il volo.

Qualche istante dopo, il boato dell’esplosione squarciò l’aria come un tuono.

Una nuvola di fumo nero cominciò a fuoriuscire dalla coda dell’AW119 che quasi all’istante prese a roteare su se stesso.

Le pale parvero arrancare nell’aria e il velivolo cominciò a precipitare verso il suolo, come un palloncino bucato da uno spillo.

Un bagliore accecante anticipò il boato dell’esplosione, che fece tremare l’intera distesa.

La chiave di Dante
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