Parte 1

 

 

 

 

 

Napoli, quartiere di Posillipo, 6 aprile.

Due mesi dopo la spedizione in Islanda.

 

Una debole brezza risaliva dal golfo. Nel cielo azzurro, cumuli di nubi bianche e spumose erano radunate attorno alla sommità del Vesuvio. L’aria sapeva di glicine, gelsomino e zagare in fiore, inequivocabile segno di una primavera ormai arrivata.

Quando il campanello suonò, poco dopo le dieci, Manuel Cassini dormiva ancora, cullato dal consueto cinguettare dei passeri.

Aveva trascorso l’ennesima notte insonne, i ricordi dell’Islanda avevano danzato davanti ai suoi occhi e non gli avevano permesso di prendere sonno. Quell’isola di ghiaccio era diventata per lui come un fantasma, che scompariva e ricompariva tutte le notti.

Era riuscito ad appisolarsi solo quando il sole aveva cominciato a fare capolino tra le persiane semichiuse. Poi, il rumore del campanello l’aveva strappato ai suoi sogni agitati.

Aprì gli occhi. Nel letto era solo.

Sentì dei passi, delle voci e poi uno squillante «Grazie!».

Si mise seduto sul letto. «Chi era?», domandò ad alta voce, strofinandosi gli occhi con il braccio.

Nessuno rispose.

Scosse la testa e si alzò. Attraversò la grande camera da letto e, varcata la porta di mogano, si ritrovò in un lungo corridoio. Era arredato con una credenza del Settecento, sulla quale erano sistemati due vasi di ceramica con fiori di vetro, e una piccola libreria carica di volumi.

Il soggiorno si trovava sul lato sud dell’appartamento, affacciato su un bel giardino dove spiccava un’araucaria circondata da pini marittimi e oleandri. Oltre, si apriva la vallata che si tuffava nel golfo di Napoli. Quando fece scorrere la porta fu quasi abbagliato dalla luce che entrava dalle ampie finestre. Il sole disegnava un grande arco sul pavimento e proprio nel mezzo erano state sistemate tre casse di legno.

«Chi era?», ripeté rivolto alla donna.

Lei era di spalle, inginocchiata a studiare l’etichetta apposta su uno dei pacchi.

Intanto, nel vialetto, un piccolo furgone rosso si stava allontanando. Lo vide con la coda dell’occhio e sulla fiancata gli parve di leggere la scritta BRT.

Julia voltò il capo e sorrise. «Era un corriere», bofonchiò, accarezzandosi il mento. «Ti ha svegliato?».

Cassini la fissò senza fiato. Era bellissima. Indossava ancora il pigiama di seta nero e teneva i capelli color oro legati in una coda di cavallo. Alcune ciocche sfuggenti danzavano sulla fronte. Le guance rosee spiccavano sulla pelle bianca e le labbra carnose erano semichiuse, in un’espressione di stupore.

Dopo la morte dello sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn non era più voluta tornare a Dubai. Lì, ormai, la sua vita non aveva più uno scopo. Cassini, al rientro dall’Islanda, le aveva proposto di rimanere qualche giorno da lui, per riprendersi dalle fatiche della spedizione.

E qualche giorno si era trasformato in due mesi.

Non era certo un rapporto facile. Molte volte il professore si era domandato che tipo di coppia fossero. La volubilità di Julia non gli aveva ancora consentito di darsi una risposta univoca: in alcuni momenti era dolcissima, amorevole, la donna dei suoi sogni. In altri, fredda, glaciale e chiusa in se stessa. Le crisi di pianto, almeno nei primi giorni, erano diventate la regola ma con l’andar del tempo si erano fatte più rade.

Man mano che trascorrevano le settimane, in ogni caso, Cassini si rendeva sempre più conto che forse Dempsey, con la sua analisi spicciola aveva avuto ragione: la ragazza non aveva mai superato i traumi della sua giovinezza. Il fatto che fosse stata rapita, strappata agli affetti della sua famiglia ancora adolescente, addestrata all’uso delle armi e violentata ripetutamente aveva lasciato in lei un segno indelebile. Un segno che forse solo l’amore avrebbe potuto cancellare. Cassini era però certo che si sarebbe ripresa.

«Vengono da Dubai», annunciò la ragazza, facendo scorrere l’indice affusolato sull’etichetta di una delle casse. «L’indirizzo del mittente è quello del Burj Khalifa».

Il professore sorrise e incrociò le braccia. «Aprile allora. Che aspetti?».

Julia scattò in piedi, lo sguardo dritto negli occhi di Cassini. Poi gli si avvicinò e gli gettò le braccia al collo. «Grazie», sussurrò appena.

Lui le accarezzò la schiena, inarcando il sopracciglio. «Grazie di cosa?»

«Di tutto!», singhiozzò lei. «Grazie di tutto. Di volermi bene e di avermi accolto qui come se fossi una di famiglia».

Il professore la strinse tra le sue braccia ma non replicò.

«Non so se voglio aprirle…». Poi si voltò e osservò ancora i tre pacchi sul pavimento. Erano grossi come cassette della frutta, di legno bitorzoluto e con numerosi codici a barre appiccicati sui bordi. «Fanno parte di un capitolo della mia vita che ormai è chiuso».

Cassini si inginocchiò vicino a una delle casse. Poi scosse la testa. «Non devi farlo per me, Julia. Forse, in queste casse c’è qualcosa del tuo passato… ma aprirle non ti farà certo tornare indietro nel tempo».

Lei scosse il capo, indecisa sul da farsi.

Manuel invece sorrise. «…E di certo non farà tornare indietro me, se è quello a cui stai pensando».

La ragazza lo abbracciò di nuovo. Rimase per qualche istante immobile ma poi si avviò in cucina in cerca di un paio di forbici. Tornata, aprì il primo pacco.

L’interno era pieno di pluriball trasparente. Sopra c’erano alcuni fogli scritti a mano. Cassini li porse alla ragazza e attese prima di continuare a scartare il contenuto della cassa.

Julia li afferrò, il viso impassibile. «È del curatore testamentario dello sceicco», borbottò qualche secondo dopo. «E c’è anche una lettera di Mohamed».

Poi si mise a leggere e continuò per alcuni minuti. Quando finì, le lacrime sgorgavano copiose dai suoi occhi. «Cara Julia, mi ha servito bene, lealmente», lesse a beneficio di Cassini, immobile di fianco a lei. «Ti avevo promesso che alla mia morte ti avrei lasciato quei disegni a cui tenevi molto. Se stai leggendo questa lettera significa che il momento di ripagare il mio debito è arrivato». Le ultime parole furono seguite da un singulto soffocato.

«Di cosa sta parlando?», domandò il professore, aggrottando la fronte.

Lei aveva intuito il significato delle parole dello sceicco. Cominciò a scartare il rivestimento di plastica e alla fine indicò il contenuto della cassa al professore. «Di questi».

Sotto il rivestimento si vedeva una teca di cristallo, ben imballata, con un vistoso supporto in alabastro. Dentro c’era un disegno, forse a china, raffigurante una pietra angolare e un uomo appoggiato con atteggiamento meditabondo.

«Ma è…?». Cassini era incredulo.

«È uno dei bozzetti di Raffaello. Uno dei lavori preparatori per l’affresco della Scuola di Atene!», chiarì lei senza distogliere lo sguardo dal disegno. «Lo sceicco ne aveva tre, contenuti in teche identiche realizzate negli anni Venti dall’orafo Cesare Ravasco».

Cassini si ricordò di averli visti.

«Mohamed li aveva acquistati in segreto da una collezione privata. Sapeva che mi piacevano e mi aveva promesso che…». Julia scoppiò nuovamente in lacrime, ma tra un singhiozzo e un altro riuscì a finire la frase. «Mi aveva promesso che, alla sua morte, me li avrebbe lasciati in eredità».

 

Un’ora più tardi, le tre teche erano state montate, una accanto all’altra, nel soggiorno della casa.

I disegni rappresentavano tre dettagli dell’affresco: in quello di sinistra si vedeva la figura di Michelangelo, nei panni di Eraclito, appoggiato a una pietra angolare. In quello centrale era raffigurato il filosofo Diogene di Sinope sdraiato su una scalinata e in quello di destra, Bramante nei panni di Euclide.

«Sono fantastici!», sibilò Cassini, che stava scrutando i disegni con una lente di ingrandimento. «Guarda i dettagli, fanno venire i brividi».

Julia era seduta sul divano, immobile a osservare le tre teche. «Che ne facciamo?», domandò. «Non le voglio qui!».

«Prendiamoci qualche giorno per pensarci. Potremmo…». Il professore si bloccò di colpo. Fece passare la lente di ingrandimento nella parte bassa del disegno centrale e si fermò.

«Cosa c’è?».

Cassini non rispose.

«Cosa c’è?», ripeté Julia.

Il professore corse in corridoio e si mise a esaminare i libri sullo scaffale. Dopo qualche attimo prese una sedia e si arrampicò, estrasse un grosso volume con la copertina lucida e lo portò in soggiorno.

Julia si avvicinò a lui, incerta.

Nel frattempo il professore aveva cominciato a sfogliare il libro con foga.

«Hai visto qualcosa di strano?», chiese ancora lei, la voce dolce ma decisa.

«Forse…».

Julia scosse la testa, ma poi sorrise. Manuel Cassini era così, un vulcano che esplodeva all’improvviso.

«Guarda». Lui le indicò un punto preciso della fotografia che raffigurava la Scuola di Atene, poco sotto i gradini su cui era sdraiato Diogene di Sinope. «Cosa vedi?».

La ragazza non rispose immediatamente, poi fissò il professore stupita. «Il pavimento».

«Appunto», gli fece notare lui. Poi prese il libro e lo portò davanti allo schizzo di Raffaello. Lì, il particolare della scalinata sembrava identico, ma sul pavimento di marmo c’era una differenza. «Questa nell’affresco definitivo non c’è!».

Julia si avvicinò alla teca. Sul disegno, tra i marmi ai piedi della scalinata si vedeva un’immagine che non c’era nella Stanza della Segnatura. «Hai ragione! E sembra…».

«Sembra l’aquila! Sembra l’aquila della candida rosa. Si getta in picchiata proprio come la statua. Ha anche lo stesso becco acuminato».

«Ma come è possibile?»

«È un indizio. Non so cosa significhi, ma è un indizio che Raffaello, per qualche ragione, non ha riportato nell’opera definitiva».

Improvvisamente, l’adrenalina cominciò a scorrere nelle vene di entrambi.

«E non è la sola differenza con il quadro della Stanza della Segnatura», continuò il professore. «Guarda la testa di Diogene».

«È vero…», concordò lei. «Nell’affresco non ha alcun copricapo… qui invece…».

«Indossa un elmo!».

«Esaminiamo gli altri schizzi», concluse lei, ormai certa che il professore avesse ragione a ritenere quei dettagli degli indizi. «Cerchiamo le altre differenze».

I due si divisero: Cassini esaminò lo schizzo di sinistra e Julia quello di destra. Trascorsero alcuni minuti in silenzio, poi fu lei a parlare. «Qui c’è qualcosa, questa non ti sembra l’immagine del volto di Cristo?».

Sotto il compasso di Euclide, appena accennato, si notava un viso vagamente somigliante a quello della Sindone.

Cassini non rispose ma dopo qualche secondo si voltò di scatto verso di lei. «Dammi la lente!».

«Hai trovato qualcos’altro?»

«Eraclito…», ammise lui. «Secondo gli studiosi, Michelangelo nei panni del filosofo fu aggiunto solo in seguito nell’affresco. Se non ricordo male nella Pinacoteca Ambrosiana è conservato il cartone finale ed Eraclito non c’è».

«E allora?»

«E allora, la differenza non è solo quella. Nell’affresco di Roma non si riesce a leggere cosa sta scrivendo… ma qui sì, guarda!».

Julia si avvicinò a lui, incredula. Con la lente di ingrandimento si riuscivano a leggere abbastanza bene le tre righe del testo composto da Michelangelo.

 

Se virtù tua estima il lento passo

sì da veder Antandro, Ettòr e l’alta luce

della diritta via il seggio è ’l sasso

 

«Cosa significa?».

Cassini cominciò a ridere, prima sommessamente e poi sempre più forte. Si andò a sedere sul divano e inarcò la schiena, come per fare stretching prima di una lunga seduta in palestra. «Se hai compreso il “lento passo” e hai visto la città di Antandro, Ettore e l’alta luce», spiegò, «il seggio è il sasso della diretta via. Il sasso è il punto d’arrivo!».

«Non capisco…».

«Chiunque sia l’autore di questa terzina, ci sta dicendo di leggere il Canto VI del Paradiso. Lì l’aquila imperiale rivede la città di Antandro e il fiume Simoenta, luogo in cui giace Ettore».

Julia lo squadrò, incerta, ma non disse nulla.

«Sono simboli: Antandro simboleggia l’aquila e l’“alta luce” è usato più volte, nella Commedia, per identificare Dio».

«Se sono simboli… Allora…», replicò Julia, avvicinandosi di nuovo al bozzetto. Con il polpastrello accarezzò la testa di Diogene coperta dall’elmo che avevano visto poco prima. «Forse Ettore potrebbe essere simboleggiato dall’elmo? L’elmo di Ettore?».

Cassini si passò la lingua sulle labbra secche. Per un secondo rimase immobile con le iridi puntate sui tre bozzetti. Poi sorrise di nuovo. «Osserva i simboli. Non sono posizionati a caso, sono equidistanti l’uno dall’altro: l’aquila in basso, l’elmo in alto, il volto di Cristo sulla destra, la terzina scritta da Michelangelo sulla sinistra».

«Potrebbero essere punti di riferimento? L’ennesima mappa?»

«Hai ragione!». Cassini scattò di colpo. Tornò di corsa in camera da letto, afferrò il computer portatile e lo riportò in soggiorno.

Mentre il professore accendeva il Mac, ripeté tra sé la terzina, sostituendo alle metafore gli indizi che credeva di aver ritrovato nei bozzetti: «Se hai compreso il senso del “lento passo” e sei riuscito a vedere l’aquila, l’elmo e Dio, allora il seggio è il punto d’arrivo, la fine del viaggio».

«Il significato del “lento passo” l’abbiamo compreso. L’aquila l’abbiamo trovata…», disse lei, strofinandosi le mani sudate sui pantaloni. «Ma tutto il resto?».

Cassini richiamò a video alcune fotografie della caldera islandese. Nella maggior parte delle immagini si vedeva soltanto la statua dell’aquila, ma in alcune, seppur in lontananza, sullo sfondo, si riusciva a scorgere qualcos’altro. «Cos’è questo secondo te?».

Julia si avvicinò al professore, che stava indicando una foto scattata da dietro il volatile. Si vedeva il lato opposto dell’anfiteatro, con alcuni veicoli parcheggiati in fila dietro a un masso a forma di cupola.

«Prova a ingrandire», lo incitò lei, eccitata.

Cassini azionò lo zoom. Sul lato anteriore della cupola, quello rivolto verso sud, si notavano due scanalature e una protuberanza. Era molto rudimentale, ma nell’insieme poteva ricordare un elmo.

Julia se ne rese conto. «C’era troppa neve!», osservò la ragazza, quasi a voler consolare il professore. «Non avremmo mai potuto notarlo senza sapere cosa stavamo cercando».

«E guarda qui, sulla sinistra dell’aquila». Cassini le mostrò un’altra foto, in cui il paesaggio innevato era stato ripreso da lontano. Sul confine sinistro dell’avvallamento si notava uno spuntone di roccia basaltica che svettava sulle altre. «Quel blocco è sul lato ovest dell’anfiteatro. Lo ricordo molto bene, è dove ci hanno tenuti in ostaggio mentre scavavano».

Julia lo fissò. Anche completamente ghiacciato, si distingueva la forma di un parallelepipedo e un angolo smussato. «Potrebbe essere il seggio?».

Lui annuì, sorridendo.

«Ricorda la pietra angolare nella Scuola di Atene, quella su cui Michelangelo si appoggia per scrivere», concordò lei.

«O forse il seggio di Beatrice nella Candida rosa!», aggiunse Cassini, che tornò a sedersi sul divano e chiuse gli occhi, respirando lentamente. «Se hai compreso il senso del “lento passo” e sei riuscito a individuare l’aquila, l’elmo e la statua di Cristo, allora il seggio è il punto d’arrivo. Il seggio di Beatrice».

Julia restò per alcuni secondi in silenzio, meditabonda. «Ma cosa significa tutto ciò?», disse infine.

Cassini la fissò e poi socchiuse appena le labbra. «Significa che il tesoro esiste… e potrebbe essere molto vicino a dove abbiamo scavato!».

La chiave di Dante
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