Capitolo 70

 

 

 

 

 

Dubai, 5 gennaio. 16:57.

 

La prigione dorata di Manuel Cassini risplendeva alla luce dorata del tramonto.

Il professore era in piedi, accanto alla parete di cristallo, finalmente in forze. L’effetto del potente anestetico che dovevano avergli somministrato la sera precedente era del tutto cessato. Riusciva a camminare e a muoversi normalmente ma, come aveva immaginato, le porte erano chiuse a chiave.

L’esperimento, se così poteva essere chiamato ciò che gli avevano fatto, era durato molto poco ed era terminato prima di mezzogiorno. Non aveva sentito alcun dolore e, se si escludeva un lieve capogiro, non si era quasi accorto di nulla. Si erano semplicemente limitati a collegarlo per alcuni minuti a qualche computer. Ancora prima che riuscisse a capire cosa stava succedendo, erano arrivate le rassicuranti parole della giapponese. «Abbiamo finito. È stato bravo».

Più tardi, dopo avergli servito un pasto a base di cous cous e vino speziato, Julia, sempre lei, lo aveva riportato in quella stanza e lo aveva chiuso dentro.

Non aveva detto una parola e dal suo viso non era facile immaginare cosa pensasse. Nei suoi occhi non c’era di certo amore…

“È tutto finito?”, si domandò il professore girando come una trottola. Le maschere africane appese ai muri incombevano minacciose e sembravano seguirlo a ogni movimento.

Scrutò fuori dalla finestra. Il paesaggio era mozzafiato: sotto il grattacielo si vedeva un’immensa fontana celeste e, alzando lo sguardo, un groviglio di autostrade che si infilavano tra grattacieli ultramoderni. Poco più in là, si scorgeva il mare che si perdeva nel cielo graffiato di rosso.

“È tutto finito?”, si chiese ancora ossessivamente. Se le cose erano andate come l’arabo si era augurato, allora forse era davvero tutto finito. Per quanto folle fosse l’idea che aveva spinto lo sceicco a rapirlo e a portarlo a Dubai, credeva di averla compresa: era stato trascinato lì solo perché alcuni dei suoi ricordi potessero essere trasferiti nel cervello dell’arabo.

La ragione di quelle azioni, degne di un pessimo film di fantascienza, erano ancora più folli delle azioni stesse: Mohamed bin Saif Al Husayn sperava in quel modo di riuscire a decifrare gli indizi contenuti nella Divina Commedia e nei dipinti del Cinquecento. Per poter così trovare il tesoro dei templari! Ammesso che davvero ci fossero indizi da decifrare e tesori da trovare…

Non poteva sapere se l’espianto avesse funzionato o meno. In ogni caso, era certo di una cosa: quell’accozzaglia di flashback, di frasi casuali di Dante, di frammenti scomposti, sarebbe servita a tutto, ma non a decifrare un’ipotetica mappa.

Se lo sceicco adesso aveva nella mente le informazioni che aveva lui, nel migliore dei casi era spossato e disorientato. Nel peggiore si era reso conto di aver fatto tutta quella fatica per nulla: se davvero c’era un codice da decifrare, in quel modo certamente non ci sarebbe riuscito… non con i marker ripescati dalla sua memoria.

“Adesso almeno mi crederà…”.

Cassini si spostò e raggiunse una vetrinetta di cristallo sistemata accanto alla porta. Conteneva alcune edizioni della Divina Commedia. Si intendeva abbastanza di libri antichi e non faticò a riconoscere quello di maggior pregio: le pagine erano in ottimo stato seppur ingiallite dal tempo e segnate da alcuni fori di tarlo restaurati. La legatura era in vitellino, tipica di inizio Settecento.

Accanto c’era un altro volume, più piccolo e certamente più recente. Era una bellissima edizione mignon in pelle di vitello, con titolo e fregi impressi a secco in oro e un risguardo color crema. Stando all’indicazione presente sulla copertina, Firenze G. Barbèra Editore, poteva essere di fine Ottocento o inizio Novecento al massimo.

«Le piace?», domandò il sintetizzatore vocale dello sceicco, che doveva essere appena entrato.

Cassini alzò lo sguardo, stupito di vederlo lì. Nonostante l’imponente mezzo di trasporto, ancora una volta non l’aveva sentito arrivare. «Quella del Settecento è splendida! Ma se dovessi scegliere, comprerei la mignon… giusto per averla con me, se qualcuno interessato a Dante mi rapisse!». Non sorrise.

«Piace molto anche a me!». Lo sceicco finse di non aver udito la provocazione e continuò: «È del 1898».

Il professore rimase in silenzio, con un’espressione torva. Quell’inizio di conversazione era decisamente seccante, soprattutto se considerava il fatto che aveva davanti a lui l’aguzzino che l’aveva fatto rapire, il qualcuno interessato a Dante.

«Se la vuole è sua», gracchiò ancora Al Husayn, il viso cadente e inespressivo come sempre. «Lo consideri un risarcimento per ciò che ha passato».

«Significa che mi lasciate andare?», domandò distaccato Cassini.

«Sì!».

«Ha terminato il suo esperimento?», indagò circospetto, con un acuto improvviso nella voce. «Ha ottenuto ciò che voleva?».

L’arabo rimase in silenzio, gli occhi grigi a fissare un punto nel vuoto. «È finita, professore. Ormai ho i giorni contati e purtroppo ciò che mi aspettavo non è accaduto! La ricerca è finita… che io lo voglia o no».

Il professore lo fissò. Diceva la verità? Rispetto all’incontro avvenuto quella mattina gli sembrava invecchiato di dieci anni. Se avesse dovuto scommettere, avrebbe giurato che non mentiva. «Pensava che con le mie conoscenze e con quelle dei miei colleghi sarebbe stato in grado di decifrare gli indizi?».

Al Husayn non rispose, ma dai suoi occhi gli parve di intravedere una reazione eloquente.

Intanto, alcune immagini, probabilmente richiamate dall’arabo stesso, cominciarono a scorrere sul display della carrozzina, La Gioconda, la Scuola di Atene, l’Ultima Cena.

«Ha considerato l’idea di sbagliarsi? Il fatto che non esista nessuna chiave di Dante e non ci sia nulla da trovare in Islanda?», obiettò ancora Cassini.

Lo sceicco adesso fissava l’animazione che aveva mostrato a Eklöf alcuni giorni prima. Quella che sembrava disegnare le gobbe di un cammello nel tracciato dei fiumi Blákvísl e Jökulfall.

«No», bofonchiò infine, sicuro. «Non ho considerato l’idea di sbagliarmi… so che ho ragione». Mentre all’esterno mostrava sempre la stessa espressione cupa, dentro era un vulcano in piena attività.

«Purtroppo sto morendo…», concluse. «E le sue conoscenze erano la mia ultima speranza di sopravvivere». Sapeva di aver ragione, di aver visto giusto, di aver interpretato gli indizi che aveva davanti. Eppure, nonostante i suoi sforzi, i milioni di dollari investiti, la realizzazione di una tecnologia rivoluzionaria, non poteva dimostrarlo… e soprattutto non poteva ottenere ciò che desiderava più di ogni altra cosa.

Cassini inarcò il sopracciglio e improvvisamente comprese: la ricerca spasmodica in Islanda non era una caccia al tesoro fine a se stessa, il vezzo di un miliardario annoiato. Per Al Husayn era molto di più: un istinto che lo aveva spinto a prendere decisioni difficili e a usare metodi fuori dal comune.

Per un istante, soltanto per uno, provò pena per lui. Aveva davanti agli occhi un uomo condannato a morte che aveva visto scomparire la sua ultima speranza di vita.

Il motivo per il quale si trovava lì in quel momento gli fu chiarissimo. “Era la sua ultima speranza di sopravvivere!”. Si trattava di una ragione forse fin troppo banale: semplice istinto di sopravvivenza.

«Cercava la fonte della vita… ciò che le avrebbe permesso di guarire da ogni malattia», dedusse infine Cassini. «Cercava il Graal!».

«E sono convinto che sia lì, da qualche parte nell’isola di ghiaccio…», confermò l’uomo. «Anche se temo che in questa vita non potrò più dimostrarlo».

«Ma stamani mi ha parlato di quattro oggetti… non di uno soltanto. Il Graal non è una coppa, quella in cui Gesù bevve durante l’ultima cena?»

«Ci sono molte leggende sul Graal, ma nessuna ha precisi riscontri storici», gli fece notare lo sceicco alla fine di una lunga riflessione. Sentiva che le forze che l’avevano spinto ad andare avanti in quei mesi lo stavano abbandonando. Sapeva di non avere altro tempo da dedicare alla ricerca. Per quella ragione aveva deciso di svelare il suo segreto a Cassini: si riteneva un uomo onesto, illuminato. Era giusto che il giovane che aveva davanti sapesse: un piccolo risarcimento per ripagarlo delle sofferenze patite.

«Una delle teorie è quella che ha citato lei; un’altra vuole che fosse il calice in cui Giuseppe d’Arimatea raccolse le ultime gocce di sangue di Cristo dopo la crocifissione. E se non tutti sono d’accordo su cosa sia il Graal, tutti però concordano sui suoi poteri straordinari: la capacità di guarire da ogni male e di infondere la vita. Secondo alcune leggende sarebbe in grado di donare l’immortalità».

Immortalità.

Era quello che voleva l’arabo? O voleva semplicemente guarire dalla malattia che lo aveva costretto su quella sedia a rotelle?

«E i quattro oggetti?», insistette il professore. «Questa mattina mi ha parlato di quattro oggetti, non di una coppa».

«È vero. Secondo la corrente esoterica, sviluppatasi soprattutto a metà Ottocento, le reliquie che compongono il Graal sarebbero quattro: il calice stesso, la lancia, la spada e il piatto».

Cassini lo osservò in attesa che lo sceicco proseguisse, ma l’uomo non spostò lo sguardo dal display del computer. Sembrava stesse fissando una nave scomparire all’orizzonte.

Mentre sullo schermo si vedeva la mappa dell’Islanda, quella con la X e le coordinate 64° 27’ 11”, che aveva già visto quella mattina, di colpo Al Husayn ricominciò a parlare: «La lancia è quella di Longino, il soldato incaricato di verificare che Cristo fosse realmente morto sulla croce; la spada invece simboleggia i cavalieri valorosi ed è quella che secondo la leggenda avrebbe decapitato Giovanni Battista. Il piatto riporta inciso un pentacolo, una stella a cinque punte».

Il professore non disse altro perché la porta dietro lo sceicco si aprì in quell’istante. Era Julia, con il capo coperto da un velo nero e una ricetrasmittente in mano. «L’auto è pronta», esclamò rivolta allo sceicco, senza neppure degnare di uno sguardo Cassini.

«Apri la vetrinetta e consegna al nostro amico il Purgatorio di Barbèra», fece Al Husayn mentre con la carrozzina si avviava all’uscita.

Poi si fermò di colpo, tornò indietro e fissò il viso pallido del professore. «So che non ha condiviso i nostri metodi, ma ne ha compreso lo scopo. Sappia che abbiamo fatto un passo alla volta… tanti piccoli passi che credevamo ci avrebbero condotto alla meta. Lei sa più di ogni altro che non mi sbaglio. Ciononostante, le chiedo scusa».

Il professore deglutì a fatica e annuì con il capo. Non lo avrebbe mai perdonato; forse, però, lo comprendeva.

La chiave di Dante
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