Capitolo 8
Colline del Chianti, 26 dicembre. 11:34.
La villa di Andrea Cavalli Gigli sorgeva sulle colline a sud di Firenze. Il corpo principale, risalente al Seicento, era stato un antico casale e dalla sua posizione sopraelevata si godeva un paesaggio dominato da pioppi, pini marittimi e vigneti che si perdevano a vista d’occhio.
«Non sentirà alcun dolore», lo rassicurò Yukiko Nakamichi, l’esperta di bioingegneria neurale che gli sedeva di fronte. «Cerchi di stare rilassato».
Cavalli Gigli era seduto su un lettino, senza scarpe, e la osservava con attenzione. Accanto a lui c’era Meredith.
La giapponese estrasse due piccoli chip traslucidi e li cosparse con un gel trasparente.
Se si trovavano lì, nella fase cruciale dell’esperimento, il merito era del carisma, della determinazione e soprattutto del grande patrimonio di Al Husayn. Poco dopo essersi ammalato di una rara forma di sclerosi laterale amiotrofica, lo sceicco si era dedicato alla ricerca di una cura. Per farlo, aveva acquisito società di information technology, biogenetica e ingegneria che potessero aiutarlo. Insieme alle società, naturalmente, si era aggiudicato anche i servigi dei loro fondatori, spesso giovani, con idee rivoluzionarie e pochi fondi per realizzarle.
Uno di loro era seduto dietro a un computer portatile e giocherellava con il mouse. Meredith lo fissò con l’espressione di un gatto curioso: indossava un camice bianco e un paio di vistosi occhiali. «Collega l’elettroencefalografo», gli ordinò. «Non perdiamo altro tempo. L’abbiamo fatto con molte meno cerimonie in passato…».
Il giovane, grassottello e dai capelli rossi, sorrise e annuì. Si avvicinò al soprintendente e gli posizionò delicatamente sulla testa un caschetto elastico blu. Era di un materiale gommoso, simile al caucciù, ma decine di cavi elettrici rossi lo percorrevano tra la fronte e la nuca. Sistemato il dispositivo sulle orecchie lo allacciò facendo passare sul mento una fettuccia elastica.
«È solo una precauzione», chiarì, tranquillo. «Monitoriamo il ritmo beta, per verificare che la tensione elettrica media non si scosti da 19 microVolt».
«E il campo magnetico nucleare?», domandò Cavalli Gigli, al quale avevano spiegato sommariamente il funzionamento della tecnologia.
«Non si preoccupi», continuò il giovane. Era americano, si chiamava Timothy Dempsey e, nonostante i venticinque anni appena compiuti, era una delle menti più brillanti scoperte da Al Husayn. All’età di quattordici anni aveva vinto una borsa di studio allo Stockholm International Youth Science Seminar con il progetto di un microchip da usare come controller per videogame. Con il denaro aveva fondato la Solidweb e in seguito si era reso conto che il suo brevetto andava ben oltre le applicazioni ludiche. La sua società era stata così acquistata da una multinazionale di Dubai e lui si era trovato alla corte del suo nuovo mecenate, che ben presto l’aveva preso in simpatia.
«Di solito cerchiamo di non utilizzare la parola nucleare», proseguì il giovane, passandosi la mano sui capelli. «Tende a generare equivoci. Il nostro sistema non ha nulla a che vedere con la radioattività. Si basa su un concentrato di nanotecnologie e biogenetica».
«Come ha detto che si chiamano quegli affari?», indagò il soprintendente osservando il microchip trasparente che la giapponese teneva tra le pinzette.
«OCST. Organic cell stimulating and sensing transistor», rispose il giovane. «Non si preoccupi, sono gingilli del tutto naturali. Sono organici e possono rimanere a contatto con le cellule per lungo tempo, senza che i tessuti vengano danneggiati. Come le ho già detto non ci sono pericoli».
«Tenga gli occhi aperti». La donna gli puntò una luce blu sulle pupille. «Si rilassi. Pensi a un triangolo. Lo percorra mentalmente: inspiri sul primo lato ed espiri sul secondo e sul terzo».
Un grosso monitor IPS fu posizionato davanti a Cavalli Gigli. «Cominciamo con alcuni semplici test», annunciò Dempsey. «Ci serve per tarare i sensori. Tra poco vedrà un video. Sarà composto per metà da fotografie e per metà da immagini di disturbo. Per ognuno deve dire cosa vede».
Meredith sapeva che quella era la fase che avrebbe richiesto più tempo. La giudicava un’inutile spreco di risorse, ma nonostante ciò si sdraiò sul lettino e attese.