Capitolo 39
Alta Savoia, 2 gennaio. 19:16.
La Mini di Manuel Cassini procedeva spedita verso sud, su un’autostrada a due corsie. Da poco aveva superato Ginevra e adesso si trovava all’altezza di Arenthon, un paesino lungo il corso del fiume Arve.
I fari dell’auto illuminavano una carreggiata deserta, con campi pianeggianti sulla destra e alberi spogli dalla parte opposta. Ai bordi della strada era accumulata la neve caduta nei giorni precedenti e di fronte a lui le Alpi cominciavano a emergere come scogli sul mare.
Era stata una giornata estremamente intensa, ma la visita a Versailles lo aveva almeno convinto di non essere pazzo.
Non comprendeva come e soprattutto perché, ma alcuni dei ricordi che da due giorni cominciavano a riaffiorargli nel cervello non erano suoi: erano di Andrea Cavalli Gigli.
«Allora siamo d’accordo», aveva detto alla donna dopo quello strano colloquio. «Ci vediamo il giorno il ventisei dicembre», poi si era alzato e la sua immagine si era riflessa nello specchio: indossava un cardigan scuro, un papillon e una giacca di tweed. La faccia era esattamente come la ricordava nell’altra visione… quella in cui gli sparava: un viso avanti con gli anni, segnato da rughe e con alcuni nei sulle guance rosse.
Non era facile da metabolizzare, ma quell’ultima visione spiegava molte cose. Era stata la più chiara di tutte, la più completa. «Lei rivede i ricordi di un’altra persona, così come sono, integrali, grezzi, presi direttamente dai suoi neuroni», così gli aveva detto la donna.
Quelle parole erano impresse nella sua mente e non aveva fatto che ripetersele da quando era uscito da Le Carré aux Crêpes, cinque ore prima.
Si era posto molte domande, anche se, alla fine, si era concentrato sull’unica che gli sembrava importante. L’unica che avrebbe certificato la sua sanità mentale: come era possibile?
Una volta che la sua Mini si fu allontanata da Parigi sulla A6, si era fermato in un’area di sosta. Aveva riflettuto su due delle parole che ricordava di aver sentito nell’ultima visione. Poi aveva aperto il browser del cellulare e aveva scritto: actina e OCST. I risultati erano stati superiori a quanto si aspettasse…
«Mantieni la sinistra e prosegui verso la N205», indicò il navigatore, mentre la Mini procedeva a velocità costante.
Cassini osservò l’autostrada illuminata, che in quel punto passava sotto un cavalcavia, e poi prese nuovamente in mano il cellulare. Lo accese e richiamò il PDF dell’articolo che aveva salvato. Era scritto in inglese e per essere certo di averlo compreso alla perfezione lo aveva letto numerose volte.
Rallentò, si fermò sulla corsia d’emergenza, e decise di rileggerlo ancora.
«San Francisco Tribune» – edizione online
Lunedì, 2 aprile 2012
Un microchip organico per comunicare coi neuroni.
In futuro saremo in grado di registrare i sogni e rivivere le nostre esperienze.
Un microchip può interagire con le cellule cerebrali e stimolarne l’attività. L’OCST (organic cell stimulating and sensing transistor), microchip organico trasparente, capace di interagire con l’attività neuronale, è oggi una realtà grazie a una piccola società di Palo Alto appena acquisita da una multinazionale con sede a Dubai.
Le potenzialità di questa nuova tecnologia sono enormi: a cominciare dalla possibilità per i pazienti disabili di controllare gli oggetti con la mente, permettendo loro di azionare un comunicatore, la sedia a rotelle o anche dispositivi domotici per luci, porte, finestre, allarmi o termostati.
Ma non finisce qui. Secondo Timothy Dempsey – il giovane ricercatore che ha brevettato il microchip realizzato con molecole di actina – se arriveranno i giusti investimenti, sarà possibile ampliare l’utilizzo degli OCST ad attività neurali più complesse. Il primo esempio che balza alla mente è la registrazione dei sogni durante la fase REM ma – assicurano da Palo Alto – anche attività compiute a occhi aperti: una corsa sulla spiaggia, una nuotata e, per i più trasgressivi, un rapporto sessuale estremo.
Sembra pura fantascienza, eppure da domani potremmo essere in grado non solo di rivivere i sogni di qualcun altro, ma anche di fare una divertente sciata standocene comodamente sul divano di casa.
Cassini chiuse gli occhi. Era fermo, con il motore acceso, sul ciglio della strada e accanto a lui vedeva scorrere auto e camion. A ogni passaggio la Mini si muoveva per lo spostamento d’aria.
Le ultime parole dell’articolo erano quelle che lo avevano convinto ad abbandonare Parigi e ritornare in l’Italia.
Ormai era certo di aver rivissuto i ricordi di qualcun altro. Essere andato a Versailles aveva fatto riaffiorare alla mente esperienze di Cavalli Gigli. Così si spiegava, se non altro, il motivo per cui aveva quelle visioni.
Non era pazzo, ed era già un’ottima notizia.
Avrebbe dovuto porsi decine di domande, però la sua mente aveva vagato altrove, soffermandosi su dettagli apparentemente insignificanti. Aveva cercato di fissare qualche immagine di alcuni dei flashback che aveva in mente. E alla fine era riuscito a focalizzare la sua attenzione sul pensiero che evidentemente doveva già essere lì, davanti a lui: ammesso che tutta quella storia fosse reale, era possibile che i ricordi che riaffioravano poco alla volta non fossero di una sola persona? Non fossero solo di Cavalli Gigli.
Provò a ripercorrere mentalmente tutte le sue visioni: ripensò alle mani che appoggiavano i due microchip sulla sua nuca; alle mani che afferravano il volante della Ferrari guidata verso Versailles e infine alle mani che tenevano in pugno una piccola pistola.
Come aveva fatto a non notarlo? Come poteva non essersene accorto prima: in tutti quei ricordi le mani erano una costante ed erano sempre le stesse, scure, affusolate, esili. Mani da donna! Per un secondo credette di rivedere, nel flashback della camera da letto, anche uno strano braccialetto con dei triangoli d’oro.
Quelle mani non erano sue e neppure di Cavalli Gigli. Erano quasi certamente di Meredith, la donna che l’aveva abbordato al bar del Ritz la sera dell’ultimo dell’anno.
Cassini appoggiò la fronte al volante e per un secondo sembrò indeciso sul da farsi. Poi afferrò il cellulare e richiamò il numero di Sforza. Non era certo che fosse la scelta migliore, ma dopotutto, a chi avrebbe potuto rivolgersi?
Compose il numero e attese.
Mentre aspettava si domandò se l’ispettore gli avrebbe creduto. Cosa doveva raccontargli esattamente? Che qualcuno gli aveva inserito a forza nella mente dei ricordi altrui e qualcun altro voleva rapirlo per quel motivo?
Dopo dieci interminabili secondi, invece del segnale di “libero”, udì una voce francese che gli chiedeva di lasciare un messaggio in segreteria.
«Pronto, ispettore», ansimò, carico di tensione. «Sono Cassini. Ho bisogno di parlarle urgentemente. C’è qualcuno che vuole uccidermi e il motivo credo sia proprio quel microchip di cui mi chiedeva. Mi richiami appena può».
Appoggiò il telefono sul sedile del passeggero e sospirò.
Si domandò se avesse fatto bene a chiamarlo; all’ispettore sembravano interessare molto quei piccoli chip. Quale fosse la ragione non era cosa a lui nota, tuttavia doveva essere la stessa per la quale erano morti Cavalli Gigli, de Beaumon e Meredith. Ed era la stessa che lo aveva messo in pericolo. Sì, chiamarlo non poteva che essere la decisione giusta.
«E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch’è or due volte dirubata quivi». Con la mente tornò di nuovo a Dante, alla terzina che lo aveva spinto a trovarsi lì, in quel momento. «E ricorda, quando scriverai, di non tacere come hai visto la pianta, derubata per ben due volte».
Se voleva capire di più su quanto gli stava accadendo, e riuscire a spiegarlo a Sforza, aveva solo una scelta: Doveva seguire le sue visioni, quella strana mappa che lentamente si stava componendo davanti ai suoi occhi, e aspettare che il tassello successivo fosse chiaro.
Inserì la marcia e ripartì. La tappa successiva era a Milano, nell’unica altra visione che riusciva a mettere bene a fuoco. Era diretto a Santa Maria delle Grazie, dove si trovava il Cenacolo di Leonardo da Vinci.