Capitolo 88
6 chilometri a ovest del Campo base, 6 febbraio. 06:04.
I fari fendevano il buio come due coltelli affilati. Il pick-up procedeva a velocità sostenuta su una lingua di ghiaccio delimitata da picchetti colorati.
Nigel Sforza sorseggiò un po’ di caffè e poi osservò il borsone sistemato sul sedile del passeggero.
Nonostante la stanchezza era felicissimo: dentro quella borsa, aveva un dispositivo che con ogni probabilità gli avrebbe fruttato un altro cospicuo gruzzolo. Aveva poi un’ottima pista per rintracciare sia il giapponese sia l’altra parte del dispositivo, quella di maggior valore.
Dal passaporto trovato in una tasca del borsone, era emerso che l’uomo che Tanaka aveva incontrato all’Harpa era Ibrahim Al Husayn, figlio dello sceicco Mohamed bin Saif. Era quindi il figliastro di Meredith Evans e, purtroppo per lui, rappresentava l’ennesima vittima di tutta quella vicenda.
Ormai era chiaro che la ragione di tutti quegli assassini era il dispositivo di Brain Control. Sforza non era riuscito a capire la ragione, ma dal testo del biglietto era evidente che con l’intervento delle forze speciali aveva sventato la consegna del dispositivo a Tanaka, il suo ricercato.
Dopo il blitz al centro congressi della capitale, Sforza aveva così provato a mettere ordine tra gli elementi che aveva in mano. Si era allontanato dalla scena, con la scusa di dover fare rapporto a Lione, e si era portato dietro il disco a ultrasuoni, deciso a recuperare da solo gli OCST.
Il suo primo indizio l’aveva trovato nella Toyota Hilux che il principe aveva utilizzato per raggiungere l’auditorium: Dal navigatore, risultava che il pick-up era stato utilizzato il 3 febbraio per raggiungere due località nel centro dell’isola. Il giorno successivo era poi rientrato a Reykjavik. Nel viaggio di ritorno c’era stata una sola tappa intermedia, alla Týr Bank, nel quartiere commerciale della capitale.
Il secondo indizio – che mal si conciliava con il primo – lo aveva invece ottenuto alla sede della Geosync, la società il cui logo era raffigurato sul borsone: con qualche insistenza aveva saputo che i geologi della società erano impegnati in uno scavo nel nord est dell’isola, nei pressi delle cascate Gýgjarfoss.
Sapeva che il principe era in possesso degli OCST e l’opzione più logica era quella che li avesse depositati alla Týr Bank. A differenza di quanto era accaduto con la Geosync, gli impiegati dell’istituto di credito non si erano però lasciati intimorire dal suo tesserino dell’Interpol.
Prima di coinvolgere la polizia islandese per una perquisizione, aveva così deciso di verificare la ragione per la quale il principe si era recato alle Gýgjarfoss. Aveva noleggiato un’auto adatta al percorso innevato e si era messo alla guida.
Durante il viaggio, si era fermato più volte, consultando la cartina e verificando la posizione sul navigatore. Conosceva le coordinate esatte di tutte le fermate compiute dal principe durante il viaggio e ormai era vicinissimo.
Scalò la marcia, affrontando una lieve discesa, e con i fari illuminò una serie di massi scuri che emergevano dal terreno come palme nel deserto.
Ma a quel punto accadde qualcosa di inatteso. La pianura era buia e l’unico rumore percepibile era l’ululato del vento. L’unico, fino a quando, da oltre un masso semicongelato, non udì un gracchiare simile a un motore che faticava ad avviarsi. Era inconfondibile, si trattava di una scarica di mitra.
Alzato lo sguardo vide due Toyota bianche che procedevano a tutta velocità verso alcuni camper sistemati dalla parte opposta della radura.
Si fermò immediatamente e spense le luci. Non sapeva cosa pensare e come agire, quindi si limitò a osservare la scena da lontano con un piccolo binocolo a infrarossi.
Vide una decina di paramilitari che imbracciavano mitra d’assalto e notò altrettante persone costrette a uscire dai loro camper.
Guardò quanto accadeva con grande distacco, come se fosse seduto in un drive-in a osservare un film d’azione. Se fosse stato un eroe, forse, sarebbe potuto intervenire, magari quando uno dei militari aveva fatto fuoco su una donna indifesa. Purtroppo, però, sapeva di non esserlo e così era rimasto all’interno dell’abitacolo del pick-up.
Improvvisamente però, era scattato sul sedile. L’uomo che sembrava il capo di quei mercenari si era avvicinato agli ostaggi e si era fermato davanti a un giovane dai capelli castani: era Manuel Cassini e di fianco a lui c’era Julia.
Un rivolo di sudore gli attraversò la schiena. Cosa ci faceva lì Cassini?
Non gli interessava. Non avrebbe dovuto interessargli. Non erano problemi suoi, eppure, più osservava la scena, più faticava a distogliere lo sguardo.
“Non sono problemi miei”, si ripeté fra sé anche quando, due ore dopo, un convoglio partì dal campo dirigendosi verso est.
Nei pressi dei camper era rimasto soltanto un mercenario. Avrebbe potuto disarmarlo facilmente e verificare se nell’accampamento c’era traccia degli OCST. Era lì solo per quel motivo, non per Cassini e non certo per quella donna.
Ma poi gli tornò in mente l’immagine del professore, paralizzato su una sedia a rotelle all’aeroporto di Ciampino. Da ciò che aveva visto su quelle nevi, Cassini non sembrava temere Julia. Tutt’altro. Ciononostante, era evidente che fosse in pericolo. Che fossero in pericolo. E la colpa era solo sua: se a Roma, invece di consegnarlo a quella donna, l’avesse protetto, forse in quel momento non si sarebbe trovato lì.
Provava una strana sensazione, come un retrogusto amaro dopo una piacevole bevuta: una nota stonata che non gli avrebbe permesso di godersi il suo gruzzoletto.
“Non sono problemi miei”, si ripeté ancora, ostinato. Ma poi si ritrovò a osservare la sua pistola e il caricatore. Guardò la fila di veicoli scomparire dietro una collina e scosse la testa.
«Fanculo!», grugnì. Avviò il motore e li seguì a distanza di sicurezza.