Capitolo 76

 

 

 

 

 

Reykjavik, 2 febbraio. 17:54.

 

Un’avvenente hostess chiuse la porta a soffietto della business class e sfrecciò davanti a Nigel Sforza, che le inquadrò il fondoschiena nascosto dietro i Ray-Ban.

Il volo FI 701 era ormai prossimo ad atterrare al Keflavík Airport di Reykjavik. Subito dopo aver allacciato la cintura di sicurezza, l’ispettore richiuse il tavolino davanti al suo sedile.

Era partito da Parigi quella mattina, aveva fatto scalo a Heathrow e si era imbarcato sul Boeing 757 della Icelandair, consapevole di aver avuto un gran colpo di fortuna.

Il giorno precedente, uno degli addetti della dogana islandese aveva notato un giapponese affetto da eterocromia. Confrontato il mandato di cattura spiccato dell’Interpol con la faccia di Tanaka, aveva fatto rapporto.

Le fasi di atterraggio e di sbarco dei cinquantuno passeggeri richiesero meno di venti minuti.

Alle diciotto e quindici, Sforza camminava trascinando un trolley sui pavimenti lucenti del terminal.

Di fronte a lui, oltre le vetrate dell’aeroporto, si innalzavano due torri illuminate e in fondo si intravedeva la luna seminascosta tra le nuvole.

«Piacere di conoscerla», esclamò un giovane in divisa blu, appena Sforza sbucò da una porta scorrevole. «Mi chiamo Teitur Surtsson, ho segnalato io la presenza del suo uomo… Mi spiace mi sono reso conto troppo tardi che era lui».

L’ispettore lo fissò con i suoi occhi vigili: era un giovanotto sui venticinque anni, con due spesse lenti davanti agli occhi, capelli tagliati cortissimi e una faccia simpatica.

«Il lavoro alla dogana mi serve solo per mantenermi agli studi», si giustificò. I due si avviarono lungo un grande atrio semideserto, superando l’area di ritiro bagagli e poi si infilarono in una porta di servizio. «Frequento medicina e gli occhi di quell’uomo mi hanno colpito subito. Purtroppo mi sono reso conto di aver lasciato andare un ricercato solo quando è finito il turno… Sulla bacheca dell’ufficio ho notato il vostro fax».

«Qual era il nome sul passaporto?», indagò Sforza, mentre seguiva il giovane.

«Matsumoto. Hidetoshi Matsumoto. Passaporto giapponese».

«È davvero sicuro che fosse lui?». Sforza gli mostrò la fotografia.

Il giovane annuì in modo convinto. «Assolutamente. Quello sguardo non si dimentica».

«Quanto tempo è passato dall’arrivo del ricercato alla sua telefonata?», domandò ancora.

«Ho smontato alle quindici, quindi meno di un paio d’ore».

Nel frattempo i due erano giunti in un corridoio illuminato da un’accecante fila di neon. I muri che dividevano le stanze erano prefabbricati, e a ogni porta corrispondeva una vetrata coperta da una veneziana bianca.

C’era un lieve odore di disinfettante.

«Poi ha informato i suoi superiori e ha contattato Lione», tagliò corto l’ispettore.

«Certo!», rispose, quando fu giunto in un’ampia sala d’aspetto. Su una delle poltroncine sedeva un anziano, sguardo spaventato e viso alienato.

«Ma ho fatto di più!», proseguì. «Sono sceso dai tecnici della sicurezza e ho riguardato i video della sorveglianza. Dopo il visto, il giapponese è andato diretto all’uscita del terminal ed è salito su un taxi: una Volkswagen Passat station-wagon targata LI R76».

Sforza accennò un lieve inchino di ammirazione. «E magari ha convocato il tassista», dedusse, osservando l’uomo con i capelli bianchi seduto accanto a loro. Tra le dita stringeva un cappello con la visiera.

Teitur si accarezzò le mani nervosamente e fissò Sforza dritto negli occhi. «Mi sentivo responsabile… ho cercato di fare del mio meglio per recuperare».

«Ottimo lavoro!», concluse l’ispettore. «A questo punto scommetto che ha anche l’indirizzo in cui ha portato il nostro uomo».

Teitur sorrise, soddisfatto.

La chiave di Dante
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