Capitolo 23
Lione, Capodanno. 19:19.
Le porte dell’ascensore si aprirono sul pianerottolo del terzo piano e ne uscì una sagoma in abito scuro.
Raggiunta l’ultima porta si fermò. Accanto all’ingresso c’era una grande vetrata dalla quale si vedevano i fari delle auto procedere ordinatamente su Quai Charles de Gaulle.
Si avvicinò alla serratura e prima in inserire il codice la osservò con attenzione: era esattamente come si aspettava. Digitò le dieci cifre e attese. Un secondo. Due. Non successe nulla.
Per un istante temette di aver sbagliato qualcosa… o che le informazioni non fossero corrette.
Poi, improvvisamente, i tre led divennero verdi e la serratura scattò.
Entrò e si richiuse la porta alle spalle.
L’ingresso era ampio, diviso dagli altri locali del laboratorio da pareti di cristallo. Alla sua sinistra c’era un armadio di metallo a tre ante e dietro una fila di sedie azzurre. Era quasi completamente buio, solo oltre una porta scorrevole si notava una luce da tavolo su una postazione informatica.
A quel punto però successe qualcosa di inaspettato. Una sedia strisciò sul pavimento e una figura si alzò di scatto. Parlava fra sé e si mosse verso un attaccapanni sistemato accanto al poster di una donna nuda.
Era Fabien Bérot. A quell’ora doveva essere già andato via… Perché era ancora lì?
L’intruso sospirò. Se proprio era necessario ucciderlo doveva farlo prima che uscisse in corridoio. Si spostò vicino all’armadio e restò immobile, al buio, a osservare Bérot attraverso il muro di cristallo.
Il giovane spense il portatile, lo buttò in una borsa e se la mise a tracolla. Poi estrasse un paio di cuffie e se le infilò nelle orecchie. Spense la luce sulla scrivania e si diresse verso l’uscita canticchiando.
L’intruso estrasse la piccola Glock dai pantaloni e tolse la sicura.
Bérot procedeva esattamente nella sua direzione, con gli occhi piantati sul display del cellulare. Si mosse nella semioscurità, con il volto rischiarato solo dalla luce del telefono. Fece scorrere una delle porte di vetro che davano sull’atrio principale e si trovò a meno di tre metri dall’intruso.
L’ombra trattenne il fiato e contemporaneamente strinse il calcio della pistola. Ormai sembrava non ci fosse scelta…
Invece non successe nulla. Bérot non lo notò neppure, tirò dritto canticchiando e in pochi istanti scomparve in corridoio.
L’intruso tirò un sospiro di sollievo e si spostò verso il laboratorio principale. Raggiunse la scrivania, strizzò gli occhi nella penombra e individuò ciò che stava cercando: il microscopio a forza atomica era nella stanza attigua.
Si avvicinò: i due microchip erano ancora posizionati sulla piattaforma di osservazione.
La aprì facendo attenzione a non tagliarsi e li prese tra le dita.
Estrasse un piccolo contenitore, simile alla confezione regalo di un anello, e li sistemò uno accanto all’atro. Poi si diresse nuovamente nel locale più grande.
Mancava soltanto una cosa: il supporto a ultrasuoni.
Sapeva dove era la cassaforte e ipotizzò che fosse stato messo al sicuro. Staccò dal muro il poster che gli sorrideva e si trovò davanti una Juwel con combinazione elettronica digitale Runner.
Compose il codice che conosceva e i catenacci della serratura cominciarono a scorrere lentamente.
Aperto il pesante sportello trovò ciò che si aspettava: il dispositivo era smontato in più parti, appoggiate ordinatamente su un vassoio in metallo, però era lì. Prese i pezzi uno a uno, li sistemò in un sacchetto trasparente e li infilò nella tasca interna della giacca.