Capitolo 33

 

 

 

 

 

Parigi, 2 gennaio. 11:05.

 

Manuel Cassini tornò verso il suo hotel attraversando le Tuileries. Sforza lo aveva lasciato andare ancora una volta senza risposte.

In quel momento, quelli che inizialmente sembravano fiocchi di neve trasportati dal vento gelido, si erano trasformati in una nevicata vera e propria.

In pochi minuti, la ghiaia del viale centrale dei giardini era stata coperta da un sottile strato bianco. Le nuvole erano basse e quasi nascondevano l’edificio del Louvre dalla parte opposta del parco. L’aria era pungente e toglieva il respiro.

Il professore camminò con passo veloce e stato d’animo in subbuglio. Più ci rifletteva, più aveva difficoltà a spiegarsi il significato di quel flashback in cui giaceva esanime sul letto del Ritz. Era come se avesse visto la sua immagine riflessa nello specchio… con un piccolo dettaglio di differenza: lo specchio non c’era.

La sensazione però era stata differente. L’emozione provata non era quella di chi vede il suo riflesso, ma piuttosto quella di chi guarda un’altra persona. Se non fosse stato un uomo estremamente razionale, avrebbe pensato di stare impazzendo. Era come se avesse visto se stesso attraverso un punto di vista alternativo… come se si fosse rivisto in un film.

Scosse la testa, nella speranza di riuscire a liberare la mente da tutti quegli strani ragionamenti. Ancora una volta sperò che si trattasse semplicemente di un sogno. Di lì a pochi minuti si sarebbe svegliato e si sarebbe trovato nel suo letto, a casa sua, sulla collina di Posillipo.

Adesso, davanti a sé, oltre le cime degli alberi spogli, vedeva la ruota panoramica avvolta nella nebbia. Improvvisamente si sentì osservato. Si voltò di scatto e in effetti, a qualche decina di metri, all’incrocio con l’Alleé de Castiglione, notò un uomo.

In un primo momento gli sembrò che lo stesse osservando ma poi, quando Cassini si fermò per cercare di vederlo meglio, si voltò di colpo ed estrasse un cellulare.

«Sa che eccetto lei, tutti gli autori di quel libro sono morti?». Le parole di Sforza, pronunciate al ristorante la sera precedente, lo avevano turbato. Era inutile nasconderlo, era preoccupato.

Nonostante l’ispettore avesse fatto di tutto per convincerlo della sua estraneità con l’omicidio di Cavalli Gigli, lui ne era ancora convinto. Non sapeva come e nemmeno il perché, però la sua visione della piccola pistola semiautomatica era sempre davanti a lui. Sempre più netta e chiara.

Cosa sapeva Sforza? Forse stava soltanto cercando di fare in modo che lui si tradisse. Magari stava aspettando una mossa falsa, in cerca di quel movente che anche a lui mancava…

No. Decise che non era così. In tutte le circostanze in cui aveva incontrato l’ispettore, la sua sensazione era sempre stata la stessa: Sforza non lo credeva affatto colpevole. Quello che gli interessava era capire cosa fossero quegli strani microchip che gli aveva mostrato in foto.

E adesso la cosa interessava tremendamente anche a lui. Quelle mani affusolate che li afferravano con una pinzetta e che glieli appoggiavano sul collo erano l’ultima visione che aveva avuto. La più scioccante.

Istintivamente si posò la mano gelata sulla nuca, nascosta dalla sciarpa. Accarezzò i capelli e scese con i polpastrelli, su e giù, a destra e a sinistra. Nulla. Sul suo collo non c’era nulla.

Nel frattempo era arrivato all’uscita dei giardini. Girò a destra, verso Rue de Castiglione, e procedette lungo il marciapiede, costeggiando l’alta cancellata nera sormontata da spuntoni dorati che dominava il parco.

«Pon giù il seme del piangere e ascolta». Le parole di Beatrice nel canto XXXI del Purgatorio gli tornarono in mente improvvisamente. «Sì udirai come in contraria parte mover dovieti mia carne sepolta». Si stupì che quella terzina in particolare fosse riaffiorata dalla sua memoria proprio in quel momento. «Smettila di piangere e ascolta», l’aveva rimproverato Beatrice. «La mia morte avrebbe dovuto spingerti nella direzione opposta».

Significava che anche lui doveva smettere di piangere, rimboccarsi le maniche e ritrovare la strada giusta. Ma come?

In quell’istante, accanto al sottopassaggio che portava alla fermata della metropolitana, si arrestò una grossa berlina nera.

«Professor Cassini», lo sferzò una voce gutturale.

Si voltò di colpo e fu folgorato. Sul sedile posteriore dell’auto c’era un uomo. Aveva un volto deciso, dominato da due occhi di colore differente.

L’aveva già visto. Quell’uomo faceva parte della sua prima visione, quella con la pistola e Cavalli Gigli. Nel flashback, prima di concentrare il suo sguardo sulle mani, aveva notato un orientale con due iridi di colore diverso, una verde e una marrone.

«Sa che eccetto lei, tutti gli autori di quel libro sono morti?». Le parole di Sforza gli sembrarono quanto mai profetiche.

Esitò, immobile sul marciapiede. L’auto era ferma, con il motore acceso, a pochi centimetri da lui e gli bloccava ogni via di fuga.

«Salga!», ingiunse Tanaka. Aveva una voce profonda e un tono autoritario, simile a quello di Gandalf nel celebre «Tu non puoi passare». Come se non bastasse, l’uomo estrasse una piccola arma con un’incisione dorata sulla canna. Aveva già visto anche quella, anche se non ricordava esattamente dove…

Si sentì in trappola.

Cercò un’improbabile via di scampo. Dalla parte opposta di Rue de Rivoli c’era una fila ininterrotta di archi che si estendeva per l’intero marciapiede. Sperava di vedere qualche agente della Gendarmeria, ma purtroppo c’erano solo colletti bianchi troppo indaffarati per notarlo.

Aveva solo una possibilità…

In una frazione di secondo decise: l’affollato sottopassaggio della metropolitana 1, che portava alla stazione Tuileries, distava pochi passi. Si voltò di scatto e si precipitò giù per le scale.

La chiave di Dante
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