Capitolo 24
Parigi, Capodanno. 19:30.
Manuel Cassini rientrò al Ritz poco prima di cena. Per lui era stata una giornata estenuante: dopo le sue continue allucinazioni e lo svenimento al Louvre, c’era stato un veloce colloquio con l’Interpol. Era durato solo pochi minuti perché, improvvisamente, l’ispettore era stato chiamato su un’altra scena del crimine.
«Una serie di triangoli incastrati l’uno sull’altro?», aveva sussurrato Sforza al telefono. Almeno così gli era parso di capire.
Ricordava alla perfezione un bracciale simile, era della donna che l’aveva avvicinato la sera precedente… la stessa che con ogni probabilità l’aveva drogato. La ragazza lo aveva adulato, dicendogli di conoscere i suoi libri e di ammirare il suo lavoro e lui non aveva saputo resistere.
Il fatto che quell’ammiratrice fosse molto avvenente, si ritrovò a riflettere in seguito, non era stato però il motivo scatenante dell’improvvisa passione.
Era certo che se anche fosse stata meno appariscente, avrebbe accettato ugualmente sia la cena che il dopocena: non tutti erano abituati a gestire il fascino delle lusinghe…
Dopo il breve interrogatorio lo avevano lasciato andare e almeno per quella mattina non era stato arrestato.
Rimaneva però, nella sua mente, l’immagine fissa della mano che premeva il grilletto e Cavalli Gigli che moriva dissanguato. Purtroppo non era stata una semplice premonizione, come aveva sperato: il soprintendente era morto davvero. Su quello Sforza era stato chiaro… Eppure non era bastato a farlo arrestare.
Per cercare di chiarirsi le idee, dopo essere uscito dal Louvre, aveva girovagato senza meta per le strade di Parigi. Aveva fatto una lunga passeggiata per i giardini delle Tuileries e poi, in metropolitana, aveva raggiunto Montmartre.
Nel frattempo aveva smesso di piovere e nonostante l’aria di gennaio fosse gelida, molti artisti avevano cominciato ad affollare la piazza affacciata su Rue Norvins. Lì aveva pranzato e trascorso il resto della giornata.
In serata fece rientro al Ritz, esausto ma anche più sereno: per l’intero pomeriggio non aveva avuto alcuna visione. Si era convinto che l’effetto della droga fosse, in qualche modo, scomparso.
Il portiere lo salutò con un sorriso cordiale e poi gli aprì la porta.
Nelle sue intenzioni, quella doveva essere l’ultima notte all’hotel. L’indomani mattina avrebbe preso un volo per l’Italia, sempre che la polizia non lo avesse arrestato prima.
«Professor Cassini». L’ispettore Sforza era di fronte a lui, appoggiato alla balaustra della grande scala di marmo che portava al piano superiore. Indossava un vistoso giubbotto di pelle e jeans scoloriti. Era spalleggiato da tre gendarmi che confabulavano tra loro. «Le rubo soltanto pochi istanti. Ha già mangiato?».
Ancora una volta Cassini si ritrovò a pensare che, dopotutto, se avessero voluto fermarlo per l’omicidio, si sarebbero rivolti a lui in modo diverso.
Annuì, sorrise e tese la mano a Sforza. «Non ancora. Mi fa compagnia?».
Venticinque minuti più tardi, erano seduti su due poltroncine di velluto a un tavolo dell’Espadon. Con le sue arcate d’oro baroccheggianti, i tendaggi azzurri e le lampade di cristallo, il ristorante fondato da Charles Ritz nel 1956 era ancora uno dei locali più rinomati di Parigi.
«Cucina francese tradizionale, con sfumature contemporanee», esordì Sforza trangugiando un boccone di filetto alla Rossini. «È il motto del ristorante… Io adoro la loro cucina e visto che dovevo parlare con lei ho pensato di non perdere l’occasione… tanto più che il suo conto è stato saldato in anticipo. È già tutto pagato, lo sapeva?».
Cassini non fiatò, ma in effetti lo aveva saputo. Al suo arrivo, il giorno prima, il concierge lo aveva avvertito che “non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla”.
«Mi deve scusare per questa mattina», continuò Sforza. «Ma c’è stato uno sviluppo improvviso». L’ispettore si pulì la bocca ed estrasse dal giubbotto un foglio di carta. «La foto non le rende giustizia», commentò mostrando l’immagine.
Cassini rimase con il naso puntato sul piatto di ceramica. Aveva ordinato foie gras aromatizzato al tartufo, servito con contorno di salsa di cipolle e aveva cominciato a giocherellare con la forchetta d’argento.
Dopo una lunga riflessione, improvvisamente decise di assecondare ancora una volta l’ispettore: in quel momento gli sembrava di non avere altra scelta. Prese la foto e la osservò: si vedeva lui, la sera precedente, forse fotografato da una telecamera di sorveglianza al bar dell’hotel. Di fianco c’era quella donna…
«La conosce?», indagò Sforza.
«L’ho conosciuta ieri».
«Lo sapeva che ha pagato lei il suo conto? Meredith Evans Al Husayn. Il ventisette dicembre, per la precisione, più o meno nello stesso momento in cui le veniva inviata l’email da parte di Cavalli Gigli».
Cassini rimase interdetto. Era convinto che la prenotazione del viaggio fosse stata effettuata dal soprintendente o da qualche sua assistente…
«A proposito», proseguì Sforza. «Quando le è stato mandato l’invito, Andrea Cavalli Gigli era già morto da un giorno».
Il professore guardò Sforza disorientato. Vedeva la sua bocca muoversi ma, in quel momento, non era abbastanza lucido. Non riusciva a comprendere tutte le implicazioni di quanto stava ascoltando. Se l’email era falsa e il conto era stato pagato dalla stessa ragazza che l’aveva drogato, lui, in qualche modo, era la pedina di un gioco che non riusciva a spiegarsi.
«Senza dover entrare troppo nel dettaglio, sembra che la signora Evans la volesse qui a ogni costo», aggiunse l’ispettore, infilando un’altra forchettata in bocca. «La domanda è: perché?».
Sforza era arrivato alla conclusione che Cassini fosse un elemento determinante dell’indagine. Si era convinto che Meredith Evans volesse qualcosa da lui. Qualcosa che, forse, non aveva ottenuto né da de Beaumont né da Cavalli Gigli. Qualcosa che anche qualcun altro cercava: probabilmente lo stesso che prima aveva ucciso l’americana e poi aveva tentato di svaligiare la sua suite nel pomeriggio.
Ma di cosa di trattava?
Provò a domandarlo al giovane. «Perché la signora Evans l’ha fatta venire qui? Cosa le disse? Cosa voleva da lei?».
Cassini scosse la testa. «Assolutamente nulla».
«Di cosa avete parlato? Di libri, di cultura? Magari del suo libro?».
Il giovane professore annuì. «Sì, mi raccontò che era una mia ammiratrice».
«Bene, allora il suo libro forse ha qualcosa a che vedere con… a proposito». Sforza sorrise mentre portava la forchetta alla bocca. «Sa che eccetto lei, tutti gli autori di quel libro sono morti?».
Ci furono alcuni secondi di gelo, durante i quali il lieve brusio del ristorante prese il sopravvento sulla loro conversazione.
Sforza fece cadere la forchetta d’argento nel piatto con un gesto teatrale. Poi si rivolse a Cassini ancora con il sorriso dipinto sul volto. Aveva deciso di punzecchiarlo finché non gli avesse rivelato quello che stava ancora omettendo. Ed era certo che il professorino sapesse molto più di quel che diceva. La scusa dell’amnesia era troppo comoda. «Non si preoccupi, comunque, ci siamo noi a vigilare sulla sua sicurezza!».
«Ispettore, mi perdonerà ma non mi sento molto bene», bisbigliò Cassini, visibilmente scosso dalle parole di Sforza. Un turbine di emozioni l’aveva travolto e lui si sentiva incapace di gestirle. “Tutti morti?”.
«Le rubo soltanto un altro secondo», insistette Sforza. Dalla tasca del giubbotto, che aveva cominciato ad assomigliare sempre più alla borsa di Mary Poppins, l’ispettore estrasse un’altra foto: era stampata su carta lucida e mostrava l’ingrandimento di un orecchio adornato con un brillante. Sulla nuca, si notava invece una specie di sim card semitrasparente attaccata alla pelle. «Ha mai visto qualcosa di simile?».
Cassini scattò in piedi, visibilmente scosso. La osservò per un solo istante. Poi fece segno di no con la testa. «Mai!».
«Va bene», concluse Sforza. Era certo che mentisse. Quei microchip erano una parte fondamentale dell’indagine.
Forse l’uomo che si era intrufolato nella suite cercava proprio quei dispositivi, ipotizzò. E comunque, a quel punto non era il solo!
L’ispettore si avvicinò a Cassini per tendergli la mano. Poi gli sussurrò un’ultima frase nell’orecchio: «A proposito, purtroppo temo che anche la sua amica stata uccisa».