Capitolo 6
Firenze, 26 dicembre.
«È un pezzo straordinario», esordì il soprintendente, poco dopo che Sforza se ne fu andato. Erano di fronte all’Alessandro morente, una scultura posizionata davanti a due grandi vetrate che si affacciavano su Ponte Vecchio.
Avevano raggiunto il piano rialzato della Galleria degli Uffizi pochi minuti prima. Stavano camminando lungo il Secondo corridoio, la splendida area di passaggio le cui finestre, tutte unite a formare un’intera parete in vetro, si affacciano sull’Arno. «Si ritiene sia un lavoro di arte ellenistica, probabilmente ispirato a un originale di Pergamo».
Meredith non sembrava molto interessata alle parole del soprintendente e proseguì in silenzio per alcune decine di passi. Dietro di lei, oltre a Julia, la sua guardia del corpo, c’era un’altra donna orientale con una ventiquattrore nera in mano.
La piccola delegazione svoltò a sinistra, nel lungo corridoio di levante, la parte più antica della galleria. Come in tutto il resto del museo, non c’era nessuno: Cavalli Gigli, solo per quel giorno, aveva fatto posticipare l’apertura per consentire una visita privata alla moglie dello sceicco.
Il soprintendente era indeciso se affrontare subito il motivo principale della visita oppure continuare a fare da Cicerone, la parte del suo lavoro che più gli piaceva.
“Cicerone”. La sua passione era diventata anche il suo soprannome, benché non la esercitasse più molto spesso.
Era nato in una famiglia agiata e non sapendo quale fosse la sua reale vocazione aveva deciso di studiare storia dell’arte. Non perché fosse particolarmente portato ma perché era convinto che fosse la facoltà con il maggior numero di belle ragazze. Ma a differenza di quanto accade ai più, una scelta quasi casuale si era rivelata una strada perfetta per lui e per le sue attitudini.
Appena laureato era stato sistemato grazie a uno dei mille concorsoni pubblici dell’epoca. Aveva cominciato dal basso, ma con tenacia era riuscito a salire tutti i gradini, diventando da semplice impiegato del Ministero uno dei funzionari più importanti. Il suo colpo di fortuna era arrivato quando era stato scelto, grazie alle sue conoscenze, come capo di gabinetto del precedente soprintendente. Si era trasformato così nell’eminenza grigia del polo museale, un’organizzazione che gestiva una rete di musei, ville e chiostri di tutta la città.
Durante quel periodo aveva conosciuto i politici giusti e stretto una fitta rete di contatti con numerosi benefattori. E quella era stata la qualità che aveva fatto propendere la bilancia dalla sua parte al momento di sostituire l’anziano soprintendente: era diventato abilissimo a trovare miliardari eccentrici, facoltosi russi amanti dell’arte o ereditiere annoiate. Tutte persone disposte a contribuire alla cultura della sua città con una piccola fetta dei loro patrimoni.
«Ho verificato e la donazione è già arrivata», mormorò fra i denti, alla fine di una lunga riflessione. Aveva deciso, sarebbe andato dritto al punto. «Suo marito è stato molto generoso».
Meredith sorrise. Era bellissima. La sua pelle ambrata, i capelli neri e lisci e i profondi occhi color nocciola risaltavano sulla tunica azzurra. «Ha detto bene. Mio marito sa essere molto generoso. Ovviamente però si aspetta riconoscenza…».
Nessun giro di parole.
Ma era proprio quello il problema… ciò che chiedeva in cambio!
I due proseguirono sul pavimento a scacchi bianchi e neri. Dalle ampie vetrate adesso si vedeva l’ala opposta del museo, che conteneva sculture che i Medici avevano raccolto negli anni d’oro della Signoria.
«Era proprio di questo che volevo parlarle».
La donna si fermò di colpo e lo fulminò con lo sguardo. «Ci sono problemi?».
Cavalli Gigli deglutì, indeciso se dire ciò che pensava o se invece assecondare la donna. «Conosceva monsignor Claude de Beaumont?».
Lei non rispose.
«Si è suicidato l’altro ieri», aggiunse lui. «So che avevate stipulato un contratto anche con il monsignore. Non mi sembrava fosse in salute, per così dire».
Meredith fece cadere lo sguardo su uno dei busti di marmo accanto alla porta di una sala «No. In effetti non lo era. Ma non a causa nostra, stia tranquillo».
«Be’, vorrei qualche rassicurazione in più».
«C’è un contratto firmato, soprintendente. Non è possibile tornare indietro, tanto più che mio marito ha già adempiuto ai suoi obblighi…».
Cavalli Gigli si strofinò le mani sudate sulla giacca di tweed.
«De Beaumont era instabile», si sentì in dovere di aggiungere Meredith. «Non ha saputo controllarsi. Lei faccia quello di cui abbiamo discusso e non ci saranno rischi.».
Il soprintendente non era per nulla convinto ma sapeva di non avere scelta.
«L’importante è seguire il protocollo», incalzò ancora la moglie dello sceicco. «La fase successiva va fatta entro due ore, meglio se una soltanto. Se si aspetta di più, comincia una sorta di…». La donna cercò la parola adatta a un neofita e per un secondo rimase in silenzio. «Una sorta di compressione dei dati. In gergo è chiamata lossy. La conseguenza certa è che le ridondanze comportano una perdita d’informazioni».
L’uomo annuì. Gli accordi prevedevano che appena completata la procedura, sarebbero andati nella sua villa sul Chianti per la “seconda fase”. Ma in quel momento non vedeva l’ora di completare la prima… quella che lo riguardava più da vicino. «Eccoci. Siamo arrivati», disse.
Si infilarono nella sala di Leonardo e girarono subito a sinistra. Davanti a loro si aprì una stanza dalle dimensioni ragguardevoli, con due penisole di panche e quadri del Rinascimento su tutti i muri. La Primavera di Botticelli campeggiava al centro della parete.
«Cominciamo», ordinò Meredith.