Capitolo 21
Parigi, Capodanno. 14:08.
Gli uffici della sicurezza del Ritz si trovavano al primo piano dell’ala affacciata sul confine ottagonale di Place Vendôme. Erano stati recentemente ristrutturati e occupavano tre stanze senza finestre, collegate da porte blindate.
Una fila di monitor accesi era sistemata sull’intera parete nord. Sotto di essa erano posizionate quattro postazioni informatiche ciascuna dotata di tastiere e appositi joystick. Il sistema era in grado di controllare non solo la rete di centocinquanta telecamere dome dislocate in ogni angolo dell’hotel, ma anche i sensori installati sulle porte, i quadri elettrici, i moduli di continuità e i sistemi ambientali.
«Ripartiamo dalle 18:34». Sforza era seduto in modo scomposto su una poltroncina con i braccioli, accanto al tecnico informatico che azionava i comandi della consolle. Dietro di loro, in piedi e in religioso silenzio, c’era il direttore dell’hotel, abito nero, camicia inamidata e cravatta a pois. Lì accanto, due agenti in divisa della Gendarmerie Nationale.
Sul monitor centrale ricomparve l’immagine di Meredith, tubino nero e tacchi vertiginosi. Era stata ripresa al bar Hemingway la sera precedente, poco prima che il suo cadavere fosse ritrovato in un cassonetto a La Défense. Erano passati esattamente cinque giorni dalla decisione di Al Husayn di mandarla a Parigi.
«Ferma qui». Sforza indicò lo sguardo della donna impresso dalle telecamere. «La vittima è lei. Non c’è dubbio».
L’immagine venne ingrandita e il viso ambrato, immobile in un fotogramma che ne esaltava la bellezza esotica, rimase immobile sullo schermo.
«Puoi zumare sul bracciale?», azzardò Sforza. Appena aveva saputo del ritrovamento del cadavere, gli era tornato in mente quello strano braccialetto. Ricordava di averne visto uno identico a Firenze, quando per la prima volta aveva incontrato la moglie dello sceicco Al Husayn.
Il tecnico, un omaccione di centocinquanta chili, si voltò. «Certo. Sono immagini in 8K, otto volte la risoluzione full HD», ridacchiò, mentre con una mano estraeva un disco d’argento da un masterizzatore e lo sistemava su una campana trasparente. Si chiamava Pierre Vadeleux, aveva quarantacinque anni e una passione sfrenata per la tecnologia. La ragione per la quale lavorava come responsabile della sala controllo del Ritz era proprio quella: la possibilità di gestire attrezzature ultra moderne e all’avanguardia. Dalla sua postazione poteva vedere ogni cosa e controllare ogni aspetto dell’albergo e quella sensazione lo faceva sentire un Dio. «Se fosse un uomo potrei inquadrargli i peli del naso».
«Limitati al bracciale», lo riprese il direttore.
La telecamera si spostò sul polso della donna.
«È lo stesso», decise Sforza, dopo aver confrontato l’immagine con una fotografia sul suo cellulare. «La felicità più grande non sta nel non cadere mai ma nel risollevarsi sempre dopo una caduta. 20 luglio. Tuo, Mohamed bin Saif». L’ispettore dell’Interpol lesse ad alta voce l’incisione riportata sulla parte posteriore del gioiello, a beneficio degli altri che occupavano la stanza.
«È una fortuna che non le abbiano tolto quel chilo d’oro dal polso. Di sicuro non è morta per una rapina e comunque, senza braccialetto, non l’avremmo mai identificata…». Il gendarme si sistemò il cappello e poi concluse: «Per come era vestita l’avremmo scambiata per una puttana».
«Cosa succede dopo?».
Il tecnico fece ripartire il video. Sul monitor centrale si vedeva ancora la donna che si guardava in giro, in cerca di qualcosa… o di qualcuno. Sugli altri schermi la stessa scena era ripresa da più angolazioni.
«Non è una coincidenza. Non lo incontra per caso!». Sforza si alzò in piedi di scatto e indicò Meredith. «Vedete, cerca proprio lui. Appena lo individua va dritta dal professorino».
Sullo schermo adesso si vedeva la donna che sfiorava la mano di Manuel Cassini.
«Torniamo al dopo cena», disse Sforza, lasciandosi cadere di nuovo sulla poltrona.
Quell’indagine, che aveva cominciato quasi per caso per fare un favore al suo amico Farinelli, si stava rivelando molto più complessa del previsto. Dopo il suicidio avvenuto in Vaticano, c’era stata la morte del soprintendente del polo museale di Firenze e poi quella di Meredith.
Quale fosse il rapporto tra la famiglia Al Husayn e i due esperti d’arte non era chiaro. Certamente, un loro autista era stato ucciso in casa di Cavalli Gigli. Con altrettanta certezza esisteva un collegamento con una quarta persona: un giovane professore napoletano, Manuel Cassini. L’uomo era stato invitato a Parigi da un’email falsa proveniente dal computer del soprintendente di Firenze e poi aveva incontrato la moglie dello sceicco.
Il monsignore, il soprintendente e il professore erano accomunati da un libro scritto cinque anni prima: Il segreto dei pittori maledetti. Pareva non fossero rimasti in contatto e si erano risentiti soltanto pochi giorni prima. A quel punto sembrava ragionevole pensare che ci fosse un altro elemento a unirli, almeno idealmente: Meredith Evans, americana, moglie dello sceicco.
Con assoluta certezza, la donna aveva incontrato soltanto Cavalli Gigli e Cassini. Il primo poco dopo Natale, a Firenze, il secondo la sera dell’ultimo dell’anno proprio nell’hotel di Parigi. Era possibile che fosse lei l’americana della quale aveva parlato Farinelli, quella di cui de Beaumont si era invaghito prima di uccidersi?
Se avesse dovuto scommettere come faceva di solito, avrebbe puntato diecimila euro su Meredith: la donna di de Beaumont non poteva che essere lei.
«Ecco qua». L’omone della sicurezza azionò il joystick e sullo schermo comparve il corridoio del primo piano. Si vedeva Cassini, chiaramente alticcio, che teneva per mano la donna. I due arrivavano alla porta della suite Imperiale ed entravano. «La serratura è scattata alle due e diciannove».
Sforza avrebbe voluto obiettare qualcosa sulla privacy degli ospiti dell’hotel, sorvegliati in ogni loro movimento all’interno della struttura, ma preferì non dire nulla. Era li per un’altra ragione e aveva ben altro a cui pensare.
«E qui viene il bello». L’uomo si voltò verso Sforza.
«E quella chi è?», tuonò l’ispettore, drizzandosi sulla poltrona.
«Dunque… Julia Duskrja…». L’addetto, leggendo il cognome sullo schermo del computer, indugiò per un istante. Abbassò gli occhiali e poi proseguì: «Duskrjadcˇenko. Julia Duskrjadcˇenko. È arrivata insieme alla signora Evans. Occupava una suite al secondo piano». Richiamò a video un altro file, una tabella colorata, e lesse velocemente una serie di numeri e date. «Risulta non sia più entrata in camera da ieri sera».
«Cosa sta facendo?».
Sul video centrale si vedeva scorrere l’immagine del corridoio. Una donna bionda, pelle bianchissima, pantaloni attillati e giubbotto di pelle si avvicinava alla porta della suite di Cassini. In mano aveva una ventiquattrore nera.
«Bussa», notò il tecnico, socchiudendo le palpebre. «E dopo poco l’altra le apre».
Sforza cercò di interpretare la scena. Dopo pochi minuti che Cassini e Meredith erano saliti in camera, una terza persona aveva bussato alla porta. La moglie dello sceicco le aveva aperto e la donna era entrata come un’ombra.
«In tre si saranno divertiti…», ghignò l’uomo della sicurezza. «Peccato non avere telecamere anche nella stanza».
«Cosa succede dopo?»
«Parecchio dopo… All’alba, la biondina vestita di pelle se ne va con la sua valigia piena di giochi erotici».
«E la signora Evans a che ora esce?»
«La serratura scatta alle cinque e trentaquattro, un quarto d’ora dopo la Duskrjadcˇenko».
Sforza si alzò in piedi. Era la seconda volta che rivedeva quelle immagini. Sapeva alla perfezione cosa succedeva in seguito: quattro uomini aspettavano Meredith in corridoio e la inseguivano fino al piazzale. Le immagini del Ritz finivano lì ma la mattina dopo, il suo corpo veniva ritrovato in un cassonetto nei pressi della Défense.
«La ringrazio». L’ispettore strinse la mano al direttore e sorrise. «È stato molto gentile. Possiamo vedere le camere, adesso? Quella di Cassini, della signora Evans e quella dell’altra donna».
«Certamente, la faccio accompagnare».
Mentre il direttore parlava, le immagini che avevano appena guardato ricominciarono a scorrere. Si vedeva il primo piano della donna, quello ripreso nel bar Hemingway. Meredith si muoveva al rallentatore verso Cassini.
«Aspetti un secondo!», grugnì Sforza. «Torni indietro di qualche fotogramma».
L’uomo si voltò di scatto. Poi eseguì. I due poliziotti e il direttore si scambiarono un’occhiata.
«Cos’è quello?», indagò Sforza. «Ha detto che sono telecamere ad alta risoluzione. Lo ingrandisca di più».
«Che cosa vuole che ingrandisca, l’orecchino?».
Sul monitor si vedeva un fotogramma della donna che si stava girando. I capelli erano stati bloccati mentre si muovevano, sollevati come nell’istantanea della pubblicità di uno shampoo. Si notava un vistoso orecchino di brillanti e poco sotto, spostato verso la nuca, si vedeva uno strano disegno sulla pelle.
«Non sembra un tatuaggio. Credo sia in rilievo. Se dovessi tirare a indovinare direi che è una specie di apparecchio per l’udito».
Sforza osservò l’immagine in silenzio, mordicchiandosi le labbra.
«O forse no… Cos’è secondo lei?», chiese il tecnico mentre avvicinava ancora l’immagine sul piccolo dispositivo trasparente: aveva l’aspetto di un microchip.
«Non so cos’è e non so a cosa serve… ma di sicuro ne ho già visto uno simile».
Poco dopo che Sforza fu uscito, una delle serrature elettroniche del primo piano scattò, azionata del badge di una delle donne delle pulizie.