Capitolo 79
Campo base, 3 febbraio. 19:52.
Il camper era immerso nell’oscura pianura innevata e battuta dal vento gelido. Le folate impetuose facevano ondeggiare il mezzo e si insinuavano tra le strutture prefabbricate, sovrastando le voci lontane degli occupanti del campo.
Manuel Cassini era solo, seduto al piccolo tavolo di radica, con una lampada giallognola che dondolava sopra la sua testa, mossa dai refoli più vigorosi.
Quando avevano assegnato gli alloggi, Joonas Eklöf aveva riservato a lui il camper più piccolo, un monoscocca in vetroresina con due soli letti. La cosa più importante era però un’altra: nessuno l’avrebbe disturbato durante i suoi studi.
E in quel frangente aveva bisogno proprio di quella tranquillità: mentre fissava le fotografie della caldera innevata provava un turbine di emozioni sovrapposte; si sentiva come il vincitore di una lotteria che nello stesso giorno abbia ricevuto una fastidiosa visita del fisco.
Da un lato, sapeva che tutti i ragionamenti e le interpretazioni che li avevano portati alle cascate erano stati fallaci. In qualche modo dovevano aver frainteso gli indizi forniti dal Poeta… Dall’altro, però, era consapevole di avere avuto un grande colpo di fortuna che faceva passare in secondo piano il suo fallimento.
L’anfiteatro naturale era probabilmente il luogo giusto. Ma come spiegare il chilometro che lo separava dalle cascate?
Per essere certo che il sito fosse esatto, c’era bisogno di una conferma ulteriore. E la risposta doveva per forza essere contenuta tra le pagine della Divina Commedia; ma dove?
Proprio in quell’istante qualcuno bussò alla porta del camper.
Era Julia, intabarrata in un parka bianco e con un vassoio di plastica in mano.
La fissò attraverso il vetro e poi la fece accomodare. Con lei si insinuò nel camper anche una folata di aria e uno po’ di neve.
«Siamo a meno dieci gradi», esordì, mentre si sfilava la sciarpa dal collo.
«Non è un buon momento», le disse Cassini, facendo cadere lo sguardo sulla piccola dispensa, sulla quale lei aveva appoggiato il cibo.
«È sempre un buon momento per mangiare», rispose divertita. «A stomaco pieno si ragiona meglio». Quelle parole furono accompagnate da un sorriso sincero, che il professore parve apprezzare.
«Ok. Mi fai compagnia?».
I due si sedettero al tavolino e Cassini scoperchiò i piatti che Julia gli aveva portato.
“È una proposta di pace o qualcosa di più?”, si chiese il professore, mentre addentava la pietanza scura che aveva davanti.
«Si chiama hákarl, è squalo putrefatto…».
La donna non fece in tempo a finire la frase che Cassini sputò tutto nel piatto. «Sa di ammoniaca. È tremendo!», esclamò lui, accompagnando però le sue parole con un’occhiata divertita.
«Gli autisti stanno festeggiando il Thorrablot, la festa di mezzo inverno in onore di Thor, e hanno insistito perché lo portassi… hanno detto che ti avrebbe schiarito le idee», lei sorrise di nuovo ma dopo qualche istante le labbra carnose si richiusero.
Cassini rimase in silenzio. In effetti, mangiare qualcosa non era una cattiva idea. «Ti va una carbonara? Nello zaino ho un pacco di pasta e del guanciale sotto vuoto», disse.
Pochi minuti dopo si trovavano uno di fianco all’altra nella minuscola cucina del camper, con un aroma di soffritto e i vetri appannati per il vapore dell’acqua che bolliva.
«Devo chiederti scusa», sbottò lei all’improvviso, quasi si volesse togliere un peso.
Lui la squadrò sbattendo le palpebre, ma non rispose.
«Per tutto. Per averti rapito e per averti drogato. Non ho giustificazioni… io non sono così… Ma ciò che abbiamo fatto con quel dispositivo era l’unico modo per trovare questo posto».
Il professore abbassò lo sguardo, ancora indeciso sul significato delle parole di lei.
«Ho visto che l’hai portato ancora con tè, quel maledetto aggeggio. Cosa vuole ancora lo sceicco, rivivere gli scavi? E tramite la mente di chi?»
«Ha insistito perché lo portassi… per farlo usare al suo amico, Joonas Eklöf… ma non subito: solo se troveremo qualcosa».
«Quello che avete fatto a me è terribile!», concluse Cassini. «Non voglio più sentirne parlare».
«Ti sto solo chiedendo perdono. Non ho giustificazioni…».
Il professore sospirò, scuotendo la testa. «Cosa dovrei fare secondo te?»
«Gridare, inveire, schiaffeggiarmi, rimproverarmi». Gli prese la mano e, con le lacrime agli occhi, mimò il gesto di un ceffone. «Però perdonami, ti prego. L’ho fatto per lo sceicco, gli devo la vita».
Il professore ritrasse le dita di scatto; deglutì e cercò di rimanere calmo, ma uno spasmo gli fece contrarre lo stomaco. Il cuore cominciò a martellare più forte.
«Dimmi qualcosa!», supplicò lei in lacrime.
Ma lui era fermo, come imbambolato. Lo sfogo di Julia l’aveva decisamente colpito e forse, in altre circostanza, avrebbe potuto interpretarlo come una strana dichiarazione d’amore. Ma non in quel momento.
«Rimproverami!», aveva detto lei. Un’illuminazione.
Il rimprovero di Beatrice.
Ecco dove doveva cercare!
«E volse i passi suoi per via non vera», la terzina del canto XXX del Purgatorio, in cui l’amata rimprovera il Poeta di aver sbagliato strada, adesso cominciava ad assumere un significato diverso.
Il professore si precipitò al tavolo, recuperando l’edizione mignon del Purgatorio e sfogliò velocemente le pagine.
Quando trovò il verso, lo rilesse ad alta voce
130 e volse i passi suoi per via non vera,
imagini di ben seguendo false,
che nulla promession rendono intera.
«Volse i passi. Ancora la parola “passi”!».
Julia lo osservò perplessa, le guance solcate da una stilla salata.
«Chiama Timothy Dempsey. C’è bisogno del suo computer».
Dieci minuti dopo, il giovane era seduto di fronte a Cassini con il suo ultrabook davanti al naso.
«Non ci siamo sbagliati», rivelò il professore, eccitato. «L’indicazione della fonte era corretta: serviva a Dante per darci un riferimento geografico preciso. Ma la candida rosa è da un’altra parte ed è Beatrice a rivelarlo al Poeta, dicendogli che è andato dalla strada sbagliata, la “via non vera”».
«Ci fornisce indicazioni numeriche?», domandò l’informatico, che aveva richiamato a video la mappa della zona.
«Ricompare la parola “passi”. Al verso 130».
«Avevamo già calcolato che cento passi equivalgono a seicentosessantacinque metri circa. Centotrenta “passi”, quindi, corrispondono a ottocentosessantaquattro metri. Ma in che direzione… e partendo da dove?»
«Giusto. Hai ragione. Da quale parte?». Cassini ricominciò a sfogliare freneticamente il testo fino a che non si fermò di colpo, il dito scorreva lungo la pagina ingiallita. «Sì, sì. È questo: al verso quarantasei del canto XXXI parla di contraria parte».
Julia inarcò il sopracciglio, non capendo dove volesse arrivare il professore.
«Il verso centotrenta non è l’unico punto in cui Beatrice rimprovera il Poeta», spiegò lui, ansimando. «Nel canto successivo, la donna gli dice non solo che ha sbagliato strada, ma che è andato dalla parte opposta».
«Verso quarantasei?», domandò Dempsey asciutto. «Altri trecentocinque metri, ma verso dove?»
«Contraria parte significa dalla parte opposta rispetto a dove Dante incontra Beatrice… credo».
«Ottocento metri a ovest quindi, partendo dal punto numero “5”?», domandò il giovane, riguardando la mappa che avevano disegnato a Dubai.
«Prova… dove ci porta?».
Dempsey picchiettò sulla tastiera, tracciando una linea retta che dal punto di incontro con Beatrice, vicino alla fonte, si spostava fino alla parte opposta. Si fermò di colpo e sorrise.
«E allora?», domandò Julia.
«Aspetta un attimo. Qual era l’altro verso, quello della contraria parte?»
«Il quarantasei, cioè trecento metri circa».
Trascorsero pochi secondi e poi il giovane girò lo schermo del computer verso Cassini. «Bingo!», esultò, soddisfatto. «Il nostro anfiteatro è proprio lì, dove l’abbiamo trovato. Dista ottocento metri a ovest del punto “5”, e trecento a nord del punto “1”».
Nello stesso momento in cui Cassini decifrava gli indizi che confermavano la posizione dell’anfiteatro, il principe Ibrahim camminava solitario lungo una falda innevata.
I piedi affondavano nella neve fresca, il gelo toglieva il respiro e l’oscurità era totale. Guardando le stelle, il figlio dello sceicco credette di non averle mai viste così vicine e numerose.
Quando fu abbastanza lontano dal campo base, estrasse dal giaccone il telefono satellitare e compose il numero.
Il suo interlocutore rispose da poco più di cento chilometri di distanza.
«Sì. Domani è il gran giorno! Ho l’indirizzo. Ci vediamo lì venerdì».