Capitolo 86
Campo base, 6 febbraio. Ora locale 06:04.
La telefonata sul satellitare di Julia arrivò un’ora e quattro minuti dopo la morte di Mohamed bin Saif Al Husayn.
Per un istante, la donna credette di non aver compreso le parole del maggiordomo, un anziano che lavorava per la famiglia reale da decenni. Poi, quando la comunicazione fu interrotta, si sedette sconsolata al tavolo del camper, il cuore martellante e il respiro in affanno.
Quella notizia l’aveva presa assolutamente alla sprovvista. Era convinta che la loro missione, in un modo o nell’altro, sarebbe riuscita a salvargli la vita.
Invece aveva fallito. Di nuovo.
Tutto ciò che aveva fatto negli ultimi anni, l’aveva fatto per quell’uomo, la sua guida, l’unico che veramente avesse dimostrato di tenere a lei. L’unico che, sotto la rude corazza del suo carattere aveva intravisto in lei sensibilità e dolcezza.
Cosa sarebbe successo adesso?
«Julia!». Una voce fuori dal camper, accompagnata da colpi ripetuti alla porta, la strappò dai suoi pensieri.
Sul piazzale, illuminato dalla luce fotoelettrica del campo, c’era un uomo. Si alzò in piedi e svogliatamente gli aprì.
Davanti a lei, intirizzito e avvolto in un giaccone, c’era Manuel Cassini, lo sguardo funereo. «Mi dispiace», riuscì solo a dire, sbattendo le palpebre. «Mi hanno appena chiamato da Dubai».
E in quel preciso momento lei scoppiò in lacrime.
Nella sua vita aveva affrontato tutte le difficoltà come una vera Amazzone della Corona. Le avevano insegnato a non piangere e a non esternare mai le proprie emozioni e così aveva fatto. I momenti di difficoltà le erano sempre serviti per fortificare il suo spirito e rafforzare il carattere. Fino a quel momento.
Per la prima volta nella sua vita, tra i ghiacci islandesi, si sentì completamente svuotata, abbattuta. Privata di qualunque scopo.
«È finita», ebbe un singulto. «È tutto finito!».
Cassini la osservò per qualche istante. Tremante per il freddo, gli sembrò spaventata come un uccellino in gabbia. Le si avvicinò e la strinse forte a sé.
Julia si abbandonò completamente tra le sue braccia, singhiozzando. «Non è servito a nulla. Tutto quello che abbiamo fatto non è servito a nulla!».
Il professore si limitò ad accarezzarle la schiena. Non sapeva cosa dire. Per quanto si sforzasse, non riusciva a pronunciare parole che potessero tranquillizzarla. Si augurò solo che quell’abbraccio non finisse mai.
Rimasero immobili, stretti l’uno all’altra sul piazzale gelato, poi l’idillio si ruppe improvvisamente.
Una serie di rumori sordi attirò l’attenzione di Julia che, come punta da uno spillo, scattò indietro.
Rivolse lo sguardo verso est, in direzioni di alcuni massi neri che emergevano tra la neve e vide alcune scintille sparate verso il cielo. Poco dopo, dalla stessa direzione, si udì un’altra serie di rumori, questa volta più chiari: erano scariche di mitra.
In pochi secondi sul sentiero comparvero i fari di un’auto lanciata a tutta velocità che sobbalzava sul ghiaccio. I passeggeri, con il busto proteso fuori dal finestrino, avevano in mano fucili d’assalto e stavano sparando in aria.
Mentre Cassini era paralizzato, incapace di muoversi, Julia rientrò nel camper per cercare un’arma.
Appena dopo, l’auto si materializzò all’ingresso del campo. Superò la fila di pick-up parcheggiati e fece un giro sotto il tendone, mentre due uomini facevano fuoco verso l’alto, senza un bersaglio preciso.
Le esplosioni dei mitra rimbombarono nella valle come una serie di tuoni e i proiettili rimbalzarono sui tubi di ferro che sorreggevano la tensostruttura. Le luci nel prefabbricato ai bordi del campo base si accesero all’improvviso.
«Andiamo!», urlò Julia, afferrando la Glock e tirando per un braccio Cassini.
Corsero sulla neve, nella speranza di non essere visti dagli assalitori. Passarono davanti al penultimo camper proprio mentre la porta si apriva. Videro un assonnato Kjell Lagerbäck fare capolino mentre armeggiava con gli occhialetti da intellettuale. Subito dopo comparvero Ólína e Rúnar Einarsson, lo sguardo più incuriosito che impaurito.
Ma Julia non si fermò. Trascinando Cassini, cominciò a correre verso l’edificio prefabbricato che chiudeva il campo sulla parte est.
I proiettili, intanto, piovevano come grandine. La Toyota degli assalitori si fermò al centro del grande spiazzo, i fari illuminavano il veicolo che fino a pochi minuti prima era stato occupato da Julia.
La donna e il professore, nel frattempo, girarono attorno al camper.
«Chi sono?», riuscì a domandarle lui.
Julia non rispose, ma dal suo sguardo era evidente che non ne avesse idea. Poteva essere ancora il giapponese?
«Sdraiati per terra e non muoverti», gli ordinò.
«E tu cosa fai?», gemette lui, rimanendo immobile.
«Cerco di salvarti la vi…». Non riuscì a finire la frase, perché una scarica di proiettili di M4 bucherellò la fiancata del camper.
Lei si voltò di colpo, le mani tese e la piccola Glock tra le dita.
Avrebbe fatto fuoco, ma si sentì come Davide contro Golia: dalla pianura orientale stava arrivando un’altra auto, i fari puntati dritti sui suoi occhi e tre uomini in mimetica con fucili d’assalto.
«Gettate le armi e alzate le mani», ingiunse una voce con un megafono.
Julia rimase immobile per qualche istante, poi quando l’auto si fermò, a pochi metri da lei, chiuse gli occhi. Gettò la semiautomatica nella neve e alzò le braccia.