Capitolo 5
Firenze, 26 dicembre.
Due giorni dopo il suicidio di monsignor de Beaumont
Nigel Sforza varcò la soglia degli Uffizi alle nove in punto.
Il museo era chiuso ma Andrea Cavalli Gigli lo accolse davanti alla porta della sala riunioni e gli fece cenno di entrare. «Piacere di conoscerla».
«Piacere mio. La ringrazio per avermi ricevuto». Sforza si accomodò su un divano della sontuosa stanza. Dalle ampie finestre si vedeva l’Arno e uno scorcio del Ponte Vecchio. Pioveva.
«Purtroppo posso dedicarle solo pochi minuti», esordì Cavalli Gigli mentre si accomodava sulla poltrona di fronte a Sforza. Era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquanta, capelli neri tagliati molto corti che lasciavano intravedere una calvizie incipiente. Indossava una giacca di tweed, gilet vinaccia, camicia chiara e cravatta dello stesso colore del gilet. «D’altra parte, credo di averle già detto al telefono quanto sapevo».
Sforza sorrise, perplesso. «Come saprà sto conducendo un’indagine con la Gendarmeria vaticana. Dai tabulati relativi a monsignor Claude de Beaumont risultano molte telefonate dirette al suo cellulare e al suo ufficio. Mi può spiegare meglio cosa voleva da lei con tanta insistenza?»
«Come le ho già raccontato ho conosciuto de Beaumont cinque anni fa. Pubblicammo un libro insieme». Cavalli Gigli fece cadere lo sguardo sulla statua di due angeli, tra le finestre, e si morsicò le labbra. «Non l’ho più rivisto ne sentito fino all’inizio di dicembre».
«Poi il monsignore l’ha contattata…», tagliò corto Sforza.
Il soprintendente annuì e si alzò dalla poltrona. «Disse che aveva un’incisione da mostrarmi, voleva sapere cosa ne pensavo».
«Al telefono mi ha detto che la portò qui di persona e poi gliela lasciò per esaminarla. Me la può mostrare?».
L’anziano aveva raggiunto il tavolo dalla parte opposta rispetto alle finestre. Da una busta, che evidentemente doveva aver sistemato prima dell’arrivo dell’ispettore, estrasse una cartellina nera e la aprì.
«È di Marcantonio Raimondi, risale al 1520 circa. Sembra autentica», disse, mentre porgeva la pergamena a Sforza. «Potrebbe essere parte di un dittico».
L’ispettore osservò l’immagine. Era un’incisione in bianco e nero, simile a un disegno ma ottenuta cospargendo d’inchiostro una lastra di rame lavorata. Era poco più grande di un normale foglio A4. «Assomiglia a qualcosa che ho già visto…».
«Assomiglia alla Trasfigurazione di Raffaello», spiego il soprintendente. «È un po’ come una fotografia. Secondo Claude de Beaumont, Raimondi la realizzò mentre il dipinto dell’artista di Urbino veniva completato. È la copia della parte alta del quadro, ma differisce per un particolare».
Sforza osservò meglio l’incisione e notò subito che la figura del Cristo, al centro dell’immagine, aveva qualcosa di insolito. Sembrava differente da come gli pareva di ricordarla.
«Come forse saprà la Trasfigurazione è stato l’ultimo quadro a essere dipinto da Raffaello. Si dice che il pittore morì subito dopo aver completato il volto del Cristo». Il soprintendente tornò a sedersi. «Se quell’incisione è davvero ciò che de Beaumont credeva che fosse, si dovrebbero riscrivere pagine intere dei libri di storia dell’arte».
Sforza indugiò per un istante, indeciso se interrompere Cavalli Gigli. «Mi perdoni ma ancora non capisco il motivo di tanta insistenza da parte del monsignore».
«Fino a oggi si diceva che Raffaello fosse morto subito dopo aver dipinto il volto di Cristo. E che la parte incompleta fosse stata terminata dai suoi allievi», spiegò con tono pacato, come se stesse parlando a un bambino. «Ma se quell’incisione rappresenta davvero una sorta di fotografia dell’opera prima che l’artista morisse, significa che il quadro era già completo».
Sforza osservò di sfuggita l’incisione e poi tornò a guardare il soprintendente.
«Ha guardato bene l’immagine centrale?». Cavalli Gigli voltò il foglio, ancora appoggiato sul tavolino, e lo mostrò nuovamente a Sforza. «Quello non è Gesù e secondo il monsignore era Maometto. L’incisione sarebbe la prova che qualcuno ha modificato il quadro dopo la morte dell’artista… Raffaello è stato ucciso e Maometto è diventato Cristo!».
«Voleva sapere cosa ne pensava? E le ha telefonato diciassette volte in un giorno?». Sforza fece una pausa teatrale, certo che Cavalli Gigli nascondesse qualcosa. «A questo punto mi tolga una curiosità: lei cosa pensa?»
«Il monsignore si era convinto che Raffaello fosse stato ucciso e che Papa Leone X fosse il mandante. Secondo lui, con quell’opera il pittore intendeva rappresentare la pace tra i cattolici e i musulmani. E quello poteva essere un valido movente».
«Non mi ha ancora risposto: secondo lei de Beaumont aveva ragione?».
Cavalli Gigli scosse la testa e tornò a osservare la pergamena. «Come le ho detto l’incisione sembra autentica. Tutto il resto, compresa la teoria sulla pacificazione dei popoli, mi sembra un po’ azzardata e fantasiosa…».
«Avete parlato solo di arte quindi?». Sforza provò a cambiare discorso. «Non avete discusso d’altro? De Beaumont le ha mai parlato di una donna?».
Cavalli Gigli fece cenno di no con il capo, un espressione contrita.
«Secondo lei si è suicidato a causa di quel quadro?»
«Di sicuro ne era ossessionato… Ma non spetta a me fare ipotesi. Non lo conoscevo poi così bene».
«Prima mi diceva che avete pubblicato assieme un libro. Come ha detto che si intitolava?»
«È un’opera di nicchia, si intitola Il segreto dei pittori maledetti», rispose fiero il soprintendente.
«Di cosa parla?»
«Di allegorie. Dei concetti espressi attraverso le immagini in alcuni quadri di Botticelli, Tintoretto e Caravaggio. Tutti quei simboli avevano lo scopo di trasmettere un messaggio secondario rispetto ai dipinti. Un messaggio che, nelle intenzioni degli artisti, doveva rimanere segreto».
In quel momento qualcuno bussò. «Dottore, la sua ospite è arrivata», annunciò una giovane.
Cavalli Gigli annuì e fissò Sforza con sguardo tronfio. «Temo che i “pochi minuti” siano scaduti. Come le avevo detto, ho un altro impegno: le pubbliche relazioni mi aspettano».
Sforza strinse la mano del soprintendente che lo accompagnò alla porta. Oltre alla segretaria, nel frattempo, era arrivata una piccola delegazione di tre donne con il capo coperto da veli.
Cavalli Gigli fece gli onori di casa: «Ispettore Nigel Sforza, le presento Meredith Evans Al Husayn, moglie dello sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn… Uno dei benefattori più generosi della galleria».