Capitolo 35
Parigi, 2 gennaio. 11:41.
Quando il cellulare di Sforza squillò, l’ispettore era su un taxi diretto verso il suo hotel, a Montmartre.
Sfiorò “Rispondi” e si ritrovò davanti la faccia pallida e brufolosa di Fabien Bérot, ripresa dalla webcam dell’ufficio.
«Nigel, ti disturbo?», domandò il nerd attraverso Skype. «Ho due notizie che potrebbero interessarti. Una buona e una cattiva», continuò, senza attendere la risposta. Come al solito la sua voce era afona, non trasmetteva alcuna emozione.
Sforza si assestò sul sedile e sorrise. «Comincia da quella buona».
«Ricordi che un paio di giorni fa, prima che venissi a Lione, mentre parlavamo al telefono la comunicazione è caduta?».
L’ispettore non lo ricordava affatto. Dovette fare una faccia strana perché subito dopo Bérot aggiunse: «Il mio cellulare si era bruciato».
Sforza, questa volta, rammentò di aver notato, sulla scrivania di Fabien, un telefono con il display che sembrava incenerito. «Mi dispiace per te, ma non vedo come la cosa mi possa interessare…».
«Dovrebbe, invece», replicò il giovane, pacato. «Pensavo che si fosse fuso per un difetto di fabbrica. Quando l’ho smontato però mi sono accorto che all’interno era completamente carbonizzato».
«E allora?»
«Non è così facile che le componenti elettroniche di un telefono si brucino in quel modo», mugugnò il giovane. «Il problema potrebbe essere stato generato da onde elettromagnetiche passate attraverso i circuiti. Però ci deve essere stata una variazione di campo talmente forte da fonderli!».
Sforza cominciava già a spazientirsi. «Vieni al dunque, Fabien».
«Tu sai che in laboratorio ho un magnetometro a protoni?»
«No. E francamente non mi interessa», gli fece notare l’ispettore. «Vieni al dunque».
«Ho verificato i campi magnetici che sono stati rilevati nei giorni scorsi nel laboratorio… in particolare nelle vicinanze dei due microchip che mi hai mandato».
«E allora?». Sforza lo osservò attraverso il display del cellulare: d’un tratto, Fabien sembrò aver acquisito maggiore vitalità, come se quello che stava raccontando, per una volta, lo emozionasse davvero.
«Come sai, un campo magnetico “normale” oscilla nel tempo, o meglio, l’intensità varia nel tempo. C’è un caso però in cui il campo magnetico è stabile, seppur per un periodo limitato. Un po’ come una linea dritta al posto di una che fa su e giù…».
Sforza fece una smorfia. Non capiva dove volesse andare a parare, ma preferì non interromperlo.
«Quel caso particolare si ha nella risonanza magnetica. Il campo generato non varia nel tempo perché le cellule che si vuole osservare si devono magnetizzare, cioè si devono allineare al campo magnetico creato. Se il campo variasse in continuazione le cellule non riuscirebbero ad allinearsi… come se dovessero correre dietro a una bussola impazzita».
«In sostanza, mi stai dicendo che quei microchip generano un campo magnetico simile a quello della risonanza magnetica?», tagliò corto Sforza. «Ed è quello ad averti bruciato il cellulare?»
«Esattamente! Nelle “riaccensioni” cicliche della risonanza si è originata una variazione di campo tale da bruciare il mio Next. Stiamo parlando di un campo magnetico di circa 1 tesla… per darti un termine di paragone, quello terrestre è duemila volte inferiore».
«Fa’ un’ipotesi. Secondo te a cosa servono quei microchip?»
«Sapevo che me l’avresti chiesto», proseguì senza sorridere. «Hai mai sentito parlare della Solidweb?».
Sforza scosse la testa. «Ovviamente no. Dovrei?»
«Non necessariamente… A meno che tu non sia affetto da sclerosi multipla o da SLA. È una società che si occupa di sviluppare sistemi che aiutano i malati a muoversi autonomamente e a comunicare».
«Perdonami, continuo a non capire».
«Mi sono ricordato di aver letto qualcosa in passato». Bérot picchiettò qualcosa sui tasti e continuò. «La Solidweb produceva dispositivi che, tramite sensori simili a quelli dell’elettroencefalografo, erano in grado di interpretare i pensieri dei malati. Permettevano loro di compiere operazioni elementari. Il principio era semplice: nel nostro cervello, quando i neuroni interagiscono, la reazione chimica genera l’emissione di un impulso elettrico. I sensori EEG misurano quegli impulsi e li trasmettono al PC che poi, a sua volta, impartisce ad altri apparecchi istruzioni di base: su, giù, destra, sinistra, acceso, spento».
Sforza si assestò sul sedile. Ancora non capiva dove il giovane avesse intenzione di arrivare ma la cosa, rispetto a quello che già sapeva, cominciava a diventare interessante.
«I dispositivi più evoluti avevano fino a un massimo di duecentocinquantasei sensori da applicare alla testa. Secondo il CEO di questa Solidweb, un certo Timothy Dempsey, quel numero di sensori era sufficiente a impartire i semplici comandi che ti ho detto… ma non per lo sviluppo che aveva in mente».
«Cosa intendi?»
«Seppur in modo molto rudimentale i sensori EEG riuscivano a interpretare le reazioni chimiche provocate nel cervello e a trasformarle in istruzioni per il computer. Con la stessa tecnica, secondo lui, si poteva forse fare qualcosa di più…».
«Cosa diavolo intendi?», ripeté ancora Sforza, seccato.
«Lui voleva registrare i sogni!».
L’ispettore non riuscì a trattenere un’espressione di stupore. «Terra chiama Fabien», bisbigliò poi con il tono di un annunciatore televisivo. «Amico, non ti offendere ma mi sembra che stai viaggiando troppo con la fantasia».
«Nigel, non sto scherzando… Questa è la frontiera dell’intrattenimento per il futuro! Altro che film in 3D… la gente farà la fila per poter “vedere” i sogni di Angelina Jolie o George Clooney».
«Ammettiamo che io ti creda… e non è affatto così: a cosa serve allora la risonanza magnetica?».
Bérot sorrise e questa volta sembrava l’avesse proprio fatto di gusto.
«Come sai, il cervello umano ha un numero di neuroni variabile tra i dieci e i cento miliardi. Una mappatura completa di tutti richiederebbe troppi nanosensori. A meno che… la mappatura sia realizzata non con un sensore per ogni cellula, come nei dispositivi attuali, ma in modo diverso: misurando la precessione dello spin di protoni o dei nuclei dotati di momento magnetico». Fabien si interruppe. Poi cercò di chiarire meglio in concetto, in maniera che anche Sforza riuscisse a capire. «È esattamente quello che fa la risonanza magnetica: non rileva i neuroni uno a uno, ma nell’insieme, fa delle misurazioni a livello nucleare, registra le variazioni cerebrali a livello atomico».
Sforza rimase immobile, con un’espressione impassibile. Osservò a lungo il giovane attraverso il display. «È possibile farlo?», sospirò poi, serrando gli occhi come se avesse il sole in faccia.
«Tecnicamente si… Il problema poi sarebbe registrare i dati, ma l’altro dispositivo che mi hai portato potrebbe essere il supporto adatto… I chip organici che abbiamo… pardon… che avevamo».
«Alt, alt!». Sforza aggrottò la fronte e interruppe il giovane bruscamente. «Che cosa vuol dire avevamo?»
«Questa è la notizia brutta…». Bérot fece una pausa, in attesa di un commento che non arrivò. «La seconda cosa che dovevo dirti è proprio questa: i microchip sono scomparsi!».