Parte 2

 

 

 

 

 

Candida Rosa, 8 Luglio.

Tre mesi dopo.

 

La benna dell’escavatore finì di rimuovere le rocce superficiali poco dopo mezzogiorno.

La giornata era calda, il cielo terso. Tirava un lieve vento che scompigliava i capelli di Julia, immobile sul bordo dello scavo, pantaloncini corti, camicia a quadri e occhiali da sole.

Attorno all’area che Cassini aveva individuato c’erano solo persone fidate. Non avevano chiamato Joonas Eklöf e non c’era nessun altro degli uomini che avevano partecipato allo scavo del febbraio precedente.

Nei tre mesi che erano trascorsi dalla scoperta della “Terzina di Raffaello”, il professore si era dovuto attivare personalmente. Dal consolato Islandese aveva però ottenuto nuovi permessi di scavo. Una volta avute le autorizzazioni, aveva reclutato una nuova squadra di geologi e archeologi e aveva coinvolto nel progetto tre dei suoi migliori studenti: due ragazze e un giovane poco più che ventenni.

Mentre Julia li osservava, chini sul fondo dello scavo, ripensò alle parole ritrovate nei bozzetti di Raffaello: “Se virtù tua estima il lento passo, sì da veder Antandro, Ettòr e l’alta luce, della diritta via il seggio è ‘l sasso”.

Il significato di quella terzina li aveva spinti a tornare in Islanda, dove avevano avuto la conferma della bontà delle loro teorie. Senza neve, quel luogo aveva un aspetto del tutto diverso, con rocce giallognole e muschi che facevano risaltare ancora di più le sculture. Sembravano proprio voler richiamare gli schizzi del pittore di Urbino ed erano posizionati esattamente come nelle pergamene lasciate a Julia: l’aquila era a sud, l’elmo a nord, il seggio a ovest.

Rispetto alla terzina trovata da Cassini mancava il riferimento all’alta luce, cioè all’immagine di Cristo che avevano individuato nel terzo bozzetto. Pur non riuscendo a individuare sul lato Est dell’anfiteatro l’analoga scultura, avevano tuttavia individuato alcune rocce: Nonostante fossero sgretolate, lasciavano intuire che lì in passato ci doveva essere stato qualcosa.

Non se ne erano preoccupati perché, in ogni caso, l’indizio che gli interessava era il blocco di basalto. Senza neve, era decisamente somigliante a uno dei seggi che Dante descrive quando parla della candida rosa.

«Della diritta via il seggio è ’l sasso», diceva l’ultima frase della terzina e il significato sembrava non ammettere repliche: Nell’ultima parte del Purgatorio, il poeta aveva identificato il punto d’arrivo del viaggio con “il sasso”. Quindi quei versi significavano che il seggio – cioè il blocco di marmo identificato con il sasso – era il punto d’arrivo.

Così, tornati in Islanda, avevano scavato sotto il masso con un piccolo escavatore e avevano rimosso lo strato superficiale di terreno. Pieni di buona volontà, avevano poi continuato per alcune ore muniti di sessola, pennellini e molte speranze.

 

«Ehi. Qui forse c’è qualcosa!», urlò una delle allieve di Cassini. Era inginocchiata sul fondo dello scavo e quando pronunciò quelle parole la sua voce ebbe un tremito.

Julia scese immediatamente nel fosso, una buca quadrata di tre metri per tre e profonda due. «Cos’è?», si chiese fissando un’area irregolare del terreno.

«Sembrerebbe una tavola di legno. Forse è la parte superiore di una cassa!», ipotizzò il collega della giovane, immobile lì accanto.

«Rimuovete con calma il terriccio», ordinò Cassini, sfilandosi gli occhiali da sole e cercando di respirare con calma. Era emozionato come un bambino la mattina di Natale, anche se provava a non darlo a vedere. «Fate attenzione, cercate gli spigoli».

Trascorsero alcuni interminabili minuti, in cui gli studenti ripulirono la superficie attorno al segmento individuato. Alla fine, riuscirono a portare alla luce una tavola orizzontale di legno scuro delle dimensioni di una valigia. Sembrava ben conservata e sugli angoli si notavano dei rinforzi in metallo che avevano un colore verdastro.

«Potrebbe essere la sommità di un baule», annunciò l’altra ragazza, che con il pennellino aveva cominciato a ripulire meglio il bordo dell’oggetto.

Julia si avvicinò di più. In effetti, quella tavola nera sembrava la parte superiore di una cassa o di qualcosa di simile. Non restava che liberarla dalla terra sui quattro lati.

Occorse un’altra ora abbondante, in cui il cielo si rannuvolò e si schiarì per due volte. Al termine del lavoro, sul fondo dello scavo era perfettamente visibile un grosso baule, con paraspigoli metallici e supporti di bronzo.

«Sulla serratura c’è la croce templare», constatò una delle due studenti, inginocchiata di fianco al reperto.

«Tiratelo su», ordinò il professore, con la voce rotta dall’emozione. «Delicatamente…».

Quando, tempo dopo, raccontò quell’avventura, riferì di non ricordare con precisione ciò che accadde in seguito. In quel momento era come in trance, con i sensi che sembravano avessero smesso improvvisamente di comunicare con il cervello. Gli sembrava di vivere in un sogno, dove tutto si muoveva al rallentatore e le persone erano circondate da un’aura di luce.

«L’abbiamo trovato!», gli sussurrò Julia in un orecchio, le lacrime agli occhi e le mani che le tremavano.

Lui l’abbracciò. Un lungo abbraccio ricco di calore, che improvvisamente sembrò cancellare dalla sua memoria tutte le traversie di quella spedizione. Le ferite interiori che ancora si portava dietro, tutti i torti subiti – dal rapimento fino all’utilizzo del dispositivo di Brain Control – furono spazzate via dalla vista di quel semplice oggetto annerito dal tempo.

Dopo l’abbraccio, il professore si avvicinò ai ragazzi e ai tecnici che li avevano supportati nello scavo e strinse le mani a ognuno. «Ottimo lavoro», gemette, con un’espressione di soddisfazione sul volto. «E adesso non rimane che vedere cosa contiene».

Non sapeva cosa aspettarsi una volta aperto. Mentre le immagini degli studenti che issavano il tesoro dei templari gli scorrevano davanti agli occhi, ripensò alle parole dello sceicco. «Le reliquie che compongono il Graal sarebbero quattro: il calice stesso, la lancia, la spada e il piatto».

Per aprire le serrature occorsero alcuni minuti, ma quando scattarono e il sole tornò a illuminare il contenuto del baule dopo ottocento anni, non vide nulla di tutto ciò.

«Cosa sono?», domandò Julia stupita, con una vena di delusione nella voce.

Cassini non rispose, senza fiato. All’interno, appoggiati su una lastra metallica, c’erano una decina di rotoli di papiro perfettamente conservati.

Dopo qualche attimo, estrasse dalla tasca un paio di guanti di cotone e se li infilò. Prese delicatamente un rotolo, lo aprì e cominciò a leggere.

«È scritto sia in greco che in ebraico», annunciò a basse voce una delle studenti, che gli si era fatta vicino.

Il professore prese un altro papiro e un altro ancora.

Julia, intanto, lo fissava in silenzio, ripensando a Mohamed bin Saif Al Husayn. Se fosse stato ancora vivo, le sue speranze di guarigione si sarebbero infrante contro quei semplici papiri. Non c’era il Graal e nessuno degli oggetti che si sarebbe aspettata. “Tanta fatica per questo?”, si domandò, infilandosi le mani nelle tasche dei bermuda e sospirando.

A un certo punto, il professore prese a leggere ad alta voce un passaggio significativo del documento: «Vaheb in Suf, e i fiumi di Arnon, e il letto del fiume, che si volge là dove siede Ar, e tocca i confini di Moab».

«Mi sembra di aver già sentito qualcosa di simile», esclamò una studentessa, giocherellando con il pennellino tra le dita.

Cassini annuì. Ogni secondo che passava, sembrava più eccitato. Cominciò a leggere sempre più freneticamente, muovendo le labbra e socchiudendo gli occhi quando una frase dal greco non gli appariva chiara.

«È un passaggio della Bibbia», sentenziò l’altra ragazza dopo aver consultato il suo smartphone. «È leggermente diverso, ma le parole sono simili ai versi di Numeri 21:14».

«Hai ragione. Ecco dove le avevo lette», confermò l’altro, incrociando le braccia. «Se non ricordo male, nella Bibbia sono citati undici libri che però non sono mai stati ritrovati. In Giosuè si parla del “Libro di Jasher”, in Cronache dei “libri dei Veggenti” e in Numeri viene menzionato il libro sulle guerre di Yahweh».

In quell’istante, il professore si alzò di colpo, il papiro in mano e una smorfia appena accennata sulle labbra.

Rimase immobile a fissare il baule sul bordo dello scavo e poi cominciò a salire la caldera in direzione di Julia.

Quando fu in alto scrutò, all’orizzonte, il profilo basso e tozzo del ghiacciaio Langjökull. La lieve brezza di poco prima si era trasformata in un vento impetuoso e gelido. Un fronte nuvoloso nero e compatto avanzava verso di loro.

“Una tempesta in arrivo”, pensò.

«Ma se fossero i Libri dei veggenti sarebbe una scoperta sensazionale», aggiunse intanto la ragazza a indirizzo del collega. «Si dice che andarono perduti in epoca Marsoretica».

«Non andarono perduti… Furono semplicemente occultati!», la corresse Cassini, mentre si allontanava lentamente. Poi sottovoce aggiunse: «E quando in Vaticano scopriranno che sono ricomparsi, la tempesta arriverà per davvero».

La chiave di Dante
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