Capitolo 62
Roma, 4 gennaio. 18:58.
“Lenti passi. Piccoli passi”.
Cassini aveva gli occhi chiusi. Faceva lunghi respiri e aveva un’aria serena, come se si fosse liberato dal peso di un’ingombrante corazza.
“Già m’avean trasportato i lenti passi… ch’io non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi”. Mentre si rilassava, sprofondato comodamente sul sedile dell’auto, ripeteva mentalmente quei versi della Commedia che aveva ricordato qualche sera prima. Nel canto XXVIII del Purgatorio, Dante raccontava di essersi spinto talmente dentro la foresta da non riuscire più a vedere da dove era entrato. Quasi come era accaduto a lui: non ricordava il suo arrivo al Ritz di Parigi… ed era successo soltanto quattro giorni prima!
Lenti passi. Piccoli passi.
Il semaforo tra via Gregorio VII e via Cardinale Silj divenne rosso e l’auto si fermò dietro a un furgone Toyota.
«Ricapitoliamo», incalzò l’ispettore, con un’occhiata al professore e una al traffico. «Mi parli ancora di questo giapponese con le iridi di colore differente e la pistola dorata».
Cassini voltò ripetutamente il capo e si guardò in giro, quasi per rassicurarsi di essersi allontanato a sufficienza da Castel San’Angelo.
«Non l’avevo mai visto… almeno non di persona», ripeté per la seconda volta. Gli aveva già raccontato per sommi capi come era arrivato a Roma, ma evidentemente l’ispettore voleva maggiori dettagli. «Ha tentato di rapirmi la prima volta l’altro ieri mattina, poco dopo che ci eravamo visti ai giardini delle Tuileries».
«E poi ci è riuscito a Milano, al Cenacolo di Leonardo».
Il professore annuì.
«Come ha detto che si chiama quel dispositivo?», si informò Sforza, che in ogni caso ne aveva letto sul palmare di Cassini.
«OCST».
«OCST», ripeté l’ispettore annuendo. «Il giapponese quindi cercava questo dispositivo secondo lei?»
«Non secondo me», lo rimbrottò Cassini. «Me lo ha detto chiaramente: ha detto che avevo un prototipo che apparteneva ai loro clienti e lo rivoleva».
«Se quanto mi ha raccontato è vero, immagino che un prototipo del genere valga molti soldi». L’ispettore osservò il volto stanco di Cassini. «E lei ce l’ha… il prototipo?»
«Ovviamente no!», ringhiò il professore, innervosito dal tono. Si domandò se avesse fatto bene a chiamarlo, ma in fondo non aveva avuto altra scelta. Chi altri gli avrebbe creduto?
«Andiamo a Lione, lì per qualche giorno sarà in salvo…». Per rassicurarsi ripensò alle parole di Sforza, pronunciate pochi minuti prima.
«E poi entra in scena questa donna. Julia», lo incalzò Sforza. «Prima l’ha salvata e poi l’ha portata qui a Roma… per un esperimento. È così che ha detto, no?»
«È esattamente quello che è successo!».
«Ed è sicuro che sia lei la responsabile dell’impianto dei suoi ricordi?». Quella era la parte della storia che più lo aveva incuriosito. Cassini gli aveva raccontato che quella Julia, insieme alla moglie dello sceicco, gli aveva inserito nella mente ricordi altrui. Certo, l’articolo che spiegava il funzionamento dell’OCST l’aveva letto anche lui… L’interesse attorno a quel dispositivo poteva forse spiegare le morti sulle quali stava indagando. C’era però qualcosa che ancora gli sfuggiva.
«Il mio ricordo è preciso adesso. Più passano i giorni più le immagini si fanno nitide. Era lei, non ho dubbi al riguardo».
«Però non capisco una cosa: quale correlazione c’è tra gli esperimenti condotti da questa Julia e il dispositivo?».
Il professore scosse la testa, sconsolato. «Non vedo nessuna correlazione. Gli esperimenti, se possiamo chiamarli così, hanno tutti a che fare con opere d’arte…». Si schiarì la voce e continuò: «Julia mi disse che il suo capo, lo sceicco, voleva semplicemente rivivere le opere attraverso gli occhi di esperti».
Sforza inarcò il sopracciglio, ancora più dubbioso, ma deciso a saperne di più. «Come una specie di DVD, da rivedere ogni volta che ne ha voglia? E lei gli ha creduto?»
«Inizialmente sì, anche se non capivo il mio ruolo. Poi però mi sono convinto che dovesse esserci dell’altro: attraverso le opere d’arte stanno provando a decodificare degli indizi per qualcosa… una specie di mappa».
Sforza sorrise. «Una mappa del tesoro insomma».
L’auto raggiunse piazza Pio XI e da quel momento il traffico sembrò più scorrevole.
Il professore rifletteva mentre il suo sguardo spaziava da una vetrina illuminata all’altra. «Non c’è nessuna correlazione», sbottò, digrignando la mandibola. «Il giapponese voleva semplicemente il dispositivo. Julia invece lo utilizzava per i suoi scopi…».
Sforza assentì. «Sembra quasi che lei e le altre vittime vi siate trovati semplicemente nel mezzo: da una parte c’è un esperimento per divertire uno sceicco annoiato e dall’altra una vicenda di spionaggio industriale».
«Come ne veniamo fuori?», domandò Cassini, con il volto teso. Quella era l’unica cosa che lo interessava: uscirne vivo.
«Prima ha parlato di un ultimo esperimento in Vaticano».
Il professore annuì.
«Il fatto che lei sia scappato dalla Stanza della Segnatura deve aver scombinato i loro piani. È già un buon vantaggio».
Cassini si girò di scatto. Il sangue gli si era gelato improvvisamente nelle vene.
«Fra centocinquanta metri voltare a destra, alla rotonda. Prima uscita». La voce del navigatore irruppe nella loro conversazione ma solo l’ispettore parve accorgersene. Affrontò una rotatoria e si immise sulla circonvallazione Aurelia.
«E così questa Julia aveva con sé il dispositivo?», continuò Sforza, con il viso sorridente.
Il professore era immobile, da qualche secondo aveva smesso persino di respirare. Aveva commesso un terribile errore!
Non sentendo risposta, l’ispettore distolse lo sguardo dalla strada e lo inquadrò con i suoi occhi indagatori.
«Io non ho mai parlato delle Stanze di Raffaello», bofonchiò infine il professore. Sembrava quasi avesse paura a dirlo.
«Certo che l’ha fatto», lo rimbrottò Sforza, ma la sua voce ebbe un sobbalzo.
«Ho sempre parlato solo di Vaticano», continuò sconsolato Cassini. «Non ho mai parlato né delle Stanze di Raffaello né, tantomeno, della Stanza della Segnatura!».
L’ispettore dell’Interpol deglutì e si inumidì le labbra con la lingua. Dopo alcuni secondi di riflessioni accostò la macchina lungo un marciapiede ed estrasse dal giubbotto un oggetto metallico.
Cassini lo osservò come se la scena si stesse svolgendo al rallentatore. Aveva commesso un errore imperdonabile.
«Metti le mani dietro la testa», ordinò cupo, con una Beretta in mano.
Mentre vedeva ogni speranza di salvezza dissolversi dal viso di Cassini, Sforza tornò con la mente a Lione, una settimana prima: quel giorno, un’indagine nata per caso si era trasformata in una ghiotta opportunità.