Capitolo 93
Candida rosa, 6 febbraio. 16:08.
Il fungo di fuoco divampò sulla neve come una goccia d’inchiostro in un bicchiere d’acqua. Una nuvola di fumo nero, alta come un palazzo, si elevò al cielo emanando zaffate di combustibile bruciato e lamiere carbonizzate.
Hólmar Bjarnason, Jari Johansson e gli altri geologi – che dopo la fuga del Toro e dei mercenari si erano rifugiati ai piedi un grande masso a forma di parallelepipedo – non avevano avuto difficoltà a individuarla e a comprendere che cosa fosse accaduto. Così come Kjell Lagerbäck, il responsabile della Geosync, che era rimasto immobile accanto alla scultura dell’aquila. Per quanto avesse provato a distogliere il suo sguardo da tutti quegli effetti pirotecnici, le lenti dei suoi occhiali erano rimaste puntate sul lato est della pianura.
Poco prima, sentiti i colpi di mitra, Julia invece era scattata dalla sua posizione e si era catapultata verso Manuel Cassini.
Il professore si trovava esattamente dove era stato negli ultimi minuti: sul bordo dello scavo, le mani tese lungo i fianchi e lo sguardo perso all’interno della fenditura nel terreno.
«Andiamocene», implorò la donna, cingendogli la vita con una mano e cercando di spostarlo.
Ma lui rimase immobile, completamente avulso dalla battaglia che imperversava tutt’intorno.
«Andiamo», insistette lei. «Non possiamo rimanere qui».
Trascorse solo un istante e una voce squillante si limitò a farle eco e a confermare le sue parole. «Sì… professore… ascolti la sua amica».
La donna alzò lo sguardo in direzione del sole, portandosi il palmo sulla fronte a mo’ di visiera.
In un primo momento non riuscì a capire chi aveva parlato perché dalla sua posizione poteva vedere solo una silhouette nera, sul bordo della caldera.
«Se ci tenete alla pelle, è il caso che ce la filiamo», ribadì Sforza, scendendo agilmente sul bordo dello scavo brandendo la sua pistola.
Cassini alzò lo sguardo ma non disse nulla e lo stesso fece Julia, che si limitò a sollevare un sopracciglio.
«Non ringraziatemi tutti insieme, eh!», scherzò l’ispettore. «Dov’è la vostra auto?».
La donna indicò verso nord. «Dietro l’escavatore. Oltre quella roccia circolare». Non si sarebbe certamente aspettata di vedere lì Sforza, ma il fatto che fosse armato e dalla loro parte non le dispiacque affatto.
Cassini rinsavì di colpo, come scosso da quella presenza del tutto inaspettata. Sorrise scuotendo la testa. Poi si voltò nella direzione indicata da Julia e subito dopo tornò a squadrare l’ispettore.
«Non perdiamo tempo allora!», ribadì lui.
A testa bassa, i tre cominciarono a correre, ma riuscirono a fare solo pochi passi perché uno sparo ravvicinato rimbombò nell’aria e li costrinse a fermarsi.
«Che cav…», balbettò l’ispettore, piegandosi su un fianco.
La donna si voltò, giusto in tempo per vedere Sforza ruzzolare sulla neve. La pistola gli sfuggì di mano.
Julia rimase come folgorata. Davanti a lei c’era un uomo che conosceva perfettamente: era il giapponese che aveva ucciso Meredith. Avanzava deciso verso di loro, un foglio di carta in una mano, una pistola nell’altra e il braccio teso. Ma non la degnò di uno sguardo, la sua attenzione era solo per l’ispettore.
«La commedia è finita, signori», tuonò Tanaka, una smorfia di rabbia dipinta sul viso. «Lo chiederò solo una volta: dove è il dispositivo di Brain Control?».
La voce fu decisa e diretta e mentre pronunciava quelle parole sferzò con lo sguardo Sforza, seduto a terra e in un lago di sangue.
L’ispettore, colpito a una coscia, cercò di indietreggiare trascinando la gamba. Una riga rossa si disegnò sulla neve.
«Conterò fino a tre», proseguì Tanaka che si avvicinò con la Walther a Sforza. «Poi ti sparerò all’altra gamba, alle braccia e alle mani… Non ti ucciderò subito, ma non smetterò di sparare fino a quando non mi dirai dove l’hai messo!».
Il giapponese fece un altro passo, per permettere a Sforza di vedere il biglietto scritto da Ibrahim che teneva in mano. «Uno…».
Pochi istanti prima la Jeep del Toro aveva sobbalzato sul ghiaccio, lanciata a tutta velocità verso la Kjalvegur.
L’ombra scura dell’elicottero aveva sorvolato l’auto e gli era sfrecciata di fianco, in un turbine di sibili e rumore di lamiere contorte. Subito dopo il velivolo andò a schiantarsi sul ghiacciaio.
L’impatto era stato terribile, un boato assordante. Lo spostamento d’aria costrinse il Toro a controllare il veicolo, che sbandò più volte.
Entrambe le mani sul volante, cercò di accelerare, per allontanarsi dal luogo dell’esplosione. Ma i rottami ricadevano davanti all’auto come meteoriti.
Girò prima verso sud, per cercare di evitarli, e poi tornò in direzione del sole, lungo una lingua ghiacciata ancora più sdrucciolevole della precedente. Di fronte a lui, ferraglie di ogni genere invadevano la carreggiata.
Non si scoraggiò. Dio era con lui.
Scalò la marcia e tirò il freno a mano. Un pezzo di lamiera urtò la fiancata. Il vetro posteriore esplose e le ruote passarono su qualcosa che fece da trampolino all’auto.
Il volo durò alcuni secondi. Il Toro trattenne il fiato stringendo il volante con entrambe le mani. Poco dopo, gli pneumatici anteriori toccarono il terreno simultaneamente, seguiti dal retrotreno. L’auto cominciò a saltellare come una molla, ma proseguì la sua corsa senza apparenti danni.
Il fumo nero e le fiamme erano ormai distanti, un fungo alto come un palazzo di dieci piani che ribolliva su se stesso. Si limitò a fissare la scena dallo specchietto, poi scalò la marcia e sorrise.
«Due…». Tanaka teneva gli occhi socchiusi, il braccio proteso in avanti.
Il viso di Sforza era più bianco della neve.
In quegli interminabili momenti si ritrovò a pensare che mai, prima di allora, si era trovato faccia a faccia con la morte.
Più cercava di parlare, più i suoi occhi restavano incollati alla Walther.
«Vor meinem Nicken neigt sich die Welt, vor meinem Zorne zittert sie hin…»2, canticchiò il giapponese. Finché qualcosa non lo interruppe. Uno sparo, improvviso. Singolo. Sordo. Il rimbombo si attenuò quasi all’istante.
La canna della pistola del giapponese si abbassò lentamente, come la sbarra di un passaggio a livello prima del transito di un treno.
Sforza si limitò a toccarsi il costato, per verificare di non essere stato colpito. Ma non sentiva alcun dolore… e non perdeva altro sangue.
Poi alzò lo sguardo e vide che Tanaka, invece, aveva una macchia rossa che si allargava a vista d’occhio all’altezza del fegato.
Sforza si voltò di colpo, esterrefatto.
Dietro di lui c’era Julia, in ginocchio con la sua pistola in pugno ed entrambe le mani tese. La canna fumava.
Poi capì: doveva aver raccolto la sua arma quando era caduto.
«Per Meredith!», ruggì lei, alzandosi in piedi e fissando il corpo di Tanaka in mezzo alla neve, gli occhi sbarrati e sulla bocca un’espressione di sofferenza.
L’ispettore tirò un sospiro di sollievo. Poi, infilando la mano nella tasca dei pantaloni, accarezzò la superficie metallica del dispositivo e sorrise.
Dieci minuti dopo, Manuel Cassini era seduto da solo sul bordo dello scavo, le mani che sorreggevano il mento e lo sguardo sul sole addossato all’orizzonte. Davanti a lui, la distesa piatta e innevata sembrava una lastra d’oro che luccicava alle ultime luci del giorno.
Il professore contemplò ancora una volta lo scavo ai piedi della scultura. La voragine aperta nella lastra di basalto spiccava come una macchia nera sul ghiaccio circostante. L’aquila disegnava una lunga ombra a forma d’uncino.
«E volse i passi suoi per via non vera», ripeté fra sé.
2 «Al mio cenno, s’inchinerà il mondo, davanti al mio furore cadrà in tremore», Richard Wagner, Sigfrido, Atto I, nel punto in cui uno dei personaggi si rende conto che sarà ucciso.