Capitolo 49
Milano, 3 gennaio. 14:20.
Il Dassault Falcon 200 virò verso nord, abbassò i flap e cominciò la discesa verso l’aeroporto di Malpensa. Scese con un’inclinazione di tre gradi e si tuffò tra le nuvole grigie, fitte e cariche di pioggia.
Nigel Sforza, sprofondato nel sedile in pelle del jet dell’Interpol, teneva lo sguardo fisso sul display di un piccolo computer portatile. Le immagini del rapimento di Cassini, riprese dalle telecamere a circuito chiuso del Cenacolo, scorrevano davanti ai suoi occhi per la decima volta.
Si sentiva responsabile: si era accorto troppo tardi del messaggio lasciato da Cassini nella sua casella vocale.
«Ho bisogno di parlarle urgentemente», gli aveva detto il professorino con un tono che lasciava trasparire ansia e paura. «C’è qualcuno che vuole uccidermi e il motivo credo sia proprio quel microchip di cui mi chiedeva. Mi richiami appena può».
Sforza chiuse il pugno e lo appoggiò nervosamente sul bracciolo del sedile. Era colpa sua: Cassini aveva novità sul microchip organico e lui, invece di richiamarlo, aveva passato una notte in compagnia di due prostitute sudamericane e di una bottiglia di tequila.
Il suo cellulare era rimasto spento fino alle dieci di quella mattina e quando aveva riprovato a contattare il professore il telefono risultava irraggiungibile.
Una lieve vibrazione sulla fusoliera dell’aereo, seguita da un sibilo appena percettibile, attirarono la sua attenzione: il pilota doveva aver abbassato il carrello. Si sporse dal piccolo finestrino rotondo e, superato un banco di nubi nere, cominciò a vedere linee sottili che si trasformavano a poco a poco in strade asfaltate, campi coltivati e casette unifamiliari.
Chiuse lo schermo del computer e ripensò alle parole del professore. Era esattamente come aveva immaginato, il microchip era la causa di tutto.
Sorrise tra sé: quel caso, che in circostanze normali avrebbe archiviato senza grandi patemi d’animo, adesso era diventato decisamente affascinante.
Ciò che sembrava un banale suicidio avvenuto in Vaticano aveva assunto contorni ben più interessanti.
Non riusciva ancora a visualizzare il quadro completo, ma la casualità di trovarsi a Roma nel giorno del suicidio di monsignor Claude de Beaumont era stata un colpo di fortuna.
In quel momento, senza che quasi se ne accorgesse, le ruote del Falcon toccarono il suolo. Il jet rallentò e in pochi minuti si fermò nei pressi del terminal 2 dell’aeroporto di Milano Malpensa.
Sforza si diresse verso il portellone e mentre scendeva dalla scaletta provò a richiamare il numero di Cassini. Ancora irraggiungibile.
Si domandò dove potessero averlo portato. Immaginava cosa volessero da lui, ma quello che non sapeva era se Cassini glielo avrebbe dato… E se fosse stato così, cosa sarebbe successo? L’avrebbero ucciso?
«Buongiorno». Un uomo di bassa statura, calvo e con un paio di occhiali senza montatura, gli si parò davanti con un ombrello nero. Era Alessandro Pitti, il commissario dei carabinieri che stava indagando sulla morte di Cavalli Gigli.
Sforza tese la mano. «Grazie molte per essere venuto fin qui da Firenze», cominciò Sforza, con fare sbrigativo. «Come le dicevo al telefono, il rapimento avvenuto al Cenacolo ha una stretta correlazione con il suo caso. Si ricorda dell’email falsa inviata dall’account di Cavalli Gigli a un certo Manuel Cassini? La vittima del rapimento è proprio lui!».
Pitti annuì, lo sapeva bene. Quella era la ragione per la quale si era precipitato a Milano appena l’aveva saputo. Si avvicinò con l’ombrello a Sforza e assieme entrarono nel terminal.
«È già stato a Santa Maria delle Grazie? Ha scoperto qualcosa?»
«Le immagini a circuito chiuso del museo credo le abbia già viste anche lei. Niente di particolare rilevanza, se non il fatto che Cassini segue i suoi rapitori senza opporre resistenza».
«Ha fatto la verifica che le ho chiesto?».
Il giovane commissario sorrise. «Affermativo. Dalla parte opposta della strada rispetto alla basilica c’è qualche negozio e una piccola libreria. Lì c’è una telecamera di sorveglianza». Pitti estrasse il cellulare e fece partire un file .mov.
«Sembra che la BMW avesse compagnia», osservò Sforza, che non sembrava particolarmente stupito. «Il numero di targa dell’auto si vede? E quello della moto?»
«Affermativo. Ma abbiamo molto di più», si vantò sottovoce il commissario mentre superavano la dogana. «Abbiamo sia la macchina che la moto. La prima è precipitata da un cavalcavia nei pressi del ponte Richard Ginori e la moto è stata ritrovata nel Naviglio Grande un paio d’ore fa».
Sforza non disse nulla, ma dalle poche immagini che aveva visto, capì cosa poteva essere accaduto. Cominciò ad annuire con il capo.
«Una donna dice di aver visto un motociclista che aiutava un ragazzo a uscire dalla BMW incidentata e lo faceva salire sulla sua moto».
Superata la porta che dava sul parcheggio dei taxi, l’ispettore si fermò di colpo. Lì davanti c’era un’auto nera dei carabinieri con il lampeggiante inserito.
«E sa qual è la cosa più interessante? Questa la deve ascoltare…», continuò il commissario. «Un altro testimone racconta di uno strano inseguimento tra la sua Porsche Cayenne e la moto. Dice che un giapponese l’ha minacciato e gli ha rubato l’auto… con lui a bordo… Comunque: pare che l’inseguimento si sia concluso quando la moto è saltata su un battello, e poi è finita, senza passeggeri, nel canale. Roba da Jason Bourne, insomma».
«In qualche modo il centauro è riuscito a salvare Cassini», dedusse Sforza, accarezzandosi un sopracciglio. Immaginava chi potesse essere stato e, se era come pensava, la situazione si complicava… almeno per lui. «Lei cosa ne pensa?», chiese a Pitti mentre saliva sul sedile posteriore della Gazzella.
«Penso che siamo fortunati: pochi minuti dopo l’inseguimento, in un vicolo affacciato sui navigli, è stata rubata una FIAT Punto».
«Perché sta sorridendo?», domandò Sforza incuriosito, mentre un rivolo di pioggia gli solcava una guancia.
«Perché, come le dicevo, lei è un uomo fortunato: la Punto rubata è appena stata ritrovata!».