Capitolo 22

 

 

 

 

 

Parigi, Capodanno. 14:59.

 

Nigel Sforza, un giovane incaricato dell’hotel e i due agenti della gendarmeria raggiunsero la suite César Ritz di Meredith. Era l’ultima camera che visitavano. Nei minuti precedenti erano stati nella suite Imperiale di Cassini e in quella che era stata occupata da Julia Duskrjadcˇenko.

Avevano trovato le stanze in perfetto ordine e, in effetti, stando ai dati registrati dalla sicurezza, l’unica a essere stata utilizzata era quella di Cassini.

Il concierge fece scorrere il suo passepartout nella serratura elettronica. Dopo un istante, la porta laccata di bianco si aprì con un clic molto discreto.

Appena dentro, i quattro uomini ebbero immediatamente la sensazione che qualcosa non andasse. L’ingresso, che dava sul salone principale e sulla grande sala da pranzo, non era nel consueto ordine a cui erano abituati: il tappeto persiano era arruffato e una delle poltroncine in stile Luigi XV era invece rovesciata.

«Ci sono stati ospiti», esclamò Sforza con tono grave. «E non parlo degli addetti alle pulizie».

L’uomo della sicurezza estrasse una radio dalla giacca e bisbigliò qualcosa nel microfono, lo sguardo più impaurito che sorpreso.

I quattro si spostarono insieme verso una delle due camere. Sul letto a baldacchino, che si diceva fosse identico a quello di Maria Antonietta, erano disseminati alcuni abiti femminili. Sembrava che la valigia fosse improvvisamente esplosa; per terra c’era il contenuto di un altro borsone: si vedeva il cavo di alimentazione del cellulare, un libro e alcuni fogli sparsi. Accanto, un tablet con il vetro incrinato.

«Quando è stata aperta la porta?», bisbigliò il giovane dell’hotel alla radio.

Una voce gracchiò dall’auricolare.

Intanto i gendarmi si diressero uno nell’altra camera da letto e l’altro verso la stanza da bagno.

«Cosa? Un quarto d’ora fa? E da chi?».

Sforza si avvicinò alla finestra, accanto a una commode laccata. Appena il giovane incaricato dal direttore reinfilò la radio nella giacca, con uno sguardo lugubre, l’ispettore lo fissò dritto negli occhi. «Scommetto che la serratura è stata aperta esattamente con un badge uguale al suo».

«Come fa a saperlo?»

«Perché è qui!», rispose indicando una piccola tessera con microchip appoggiata sul mobiletto. «Se fossi un ladro e cercassi qualcosa però non abbandonerei la chiave che mi ha permes…».

In quell’istante un rumore sordo, proveniente dal bagno, attirò la sua attenzione. Era come se fosse caduto un oggetto di grosse dimensioni.

Si voltò di scatto, esattamente come il giovane.

Poi un altro suono, più forte, nitido e questa volta inconfondibile, echeggiò da oltre il muro: era uno sparo.

I due si buttarono per terra, andando a nascondersi dietro il letto a baldacchino.

L’altro gendarme, nel frattempo, si presentò sulla porta della suite con una Beretta in pugno: lo sparo era arrivato dal bagno, dove si era diretto il suo collega, ma non era stato seguito da voci o da altri rumori.

La situazione di stallo durò alcuni secondi. Nessun suono, nessun sibilo, nessun rumore.

«Se fossi un ladro, non abbandonerei la chiave…». Sforza, sottovoce, cercò di concludere la frase che aveva lasciato a metà. Si rivolse sorridendo al giovanotto che era accovacciato accanto a lui e tremava con una foglia. Nel frattempo estrasse la sua pistola. «…A meno che non fossi ancora qui».

Un rumore sordo ruppe di nuovo il silenzio. Questa volta fu seguito da un corpo barcollante che usciva dalla stanza da bagno: era l’altro gendarme che faticosamente metteva un piede davanti all’altro e si tamponava una ferita allo stomaco.

Non passò un secondo che l’ombra di un uomo saltò fuori da dietro la porta.

Era magro, di media statura, e molto agile. Indossava un passamontagna nero e stringeva una Sig Sauer nella mano destra.

Si spostò di pochi metri, in direzione dell’uscita, e sparò un altro colpo in direzione del letto, verso Sforza.

L’agente dell’Interpol, tenendo la testa bassa, provò a rispondere al fuoco, ma non ebbe il tempo di prendere la mira: il suo proiettile andò dritto contro lo specchio barocco sopra il caminetto, che si frantumò in mille pezzi. Le armi non erano il suo forte, nelle esercitazioni obbligatorie di tirassegno se la cavava sempre con il punteggio minimo.

Intanto l’ombra nera si era spostata indisturbata nel salone principale. Non c’era nessuno che si frapponesse tra l’intruso e l’uscita. E infatti, pochi secondi dopo, la porta d’ingresso sbatté.

Sforza scattò in piedi e si diresse verso il corridoio. «Di’ ai tuoi colleghi di bloccare le uscite», gridò al giovane. «E chiama un’ambulanza!».

Nel frattempo anche l’altro poliziotto si era mosso per inseguire l’intruso.

Quando furono sul grande corridoio del primo piano, l’uomo era già lontano, almeno a venti metri da loro.

Sforza cominciò a correre, la pistola in pugno.

Oltrepassata la scala di marmo che conduceva verso la reception, il corridoio piegava a sinistra. L’ombra nera si infilò oltre l’angolo e per pochi secondi scomparve alla vista di Sforza.

Alcuni istanti dopo si udirono tre spari ravvicinati seguiti da un rumore di vetri in frantumi.

Quando Sforza raggiunse la fine del corridoio, l’uomo era scomparso: doveva aver sparato alla porta-finestra che dava sulla piazza e poi essere saltato di sotto, approfittando del tendone sopra l’ingresso dell’hotel.

L’agente dell’Interpol si avvicinò circospetto alla finestra, l’aria proveniente da fuori era gelida e sapeva d’umidità.

Si sporse e osservò a destra e a sinistra, per accertarsi che l’intruso non fosse sul cornicione. Poi lo vide di sotto, nel parcheggio: un’ombra che correva veloce, con l’andatura di un centometrista. Ormai era a metà di Place Vendôme.

Sbuffò e si voltò verso l’interno dell’hotel incrociando le braccia: il gendarme, trafelato, era arrivato proprio in quel momento con la Beretta stretta in pugno.

La chiave di Dante
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