Capitolo 60

Roma, 4 gennaio. 18:50.

La piccola MG Roadster color argento, guidata da Nigel Sforza, si fermò sul bordo della strada e azionò gli abbaglianti.

L’ispettore dell’Interpol cercò di scrutare oltre i fari: alla sua destra c’era la lunga fila di platani che si affacciava sul Tevere, il marciapiede affollato di ambulanti e, subito dietro, il parapetto in muratura. Oltre il fiume, tra i rami spogli, si vedeva il profilo arrotondato di Castel Sant’Angelo, illuminato da luci giallognole.

Spense il motore e fissò l’orologio: mancavano ancora dieci minuti all’appuntamento.

Quando Cassini gli aveva telefonato, quella mattina, era ancora a Milano per completare i verbali sull’inseguimento ai Navigli. Era partito immediatamente e, senza mai fermarsi, aveva percorso i seicento chilometri che lo separavano dalla capitale in poco più di cinque ore.

Dalla concitata conversazione con il professore aveva semplicemente capito che si trovava in pericolo. Gli era parso evidente che la ragione fosse legata ai dispositivi OCST, dei quali ormai riteneva di sapere tutto ciò che c’era da sapere.

«Si nasconda da qualche parte. Vengo a prenderla io», gli aveva ordinato, pensando già alla mossa successiva. «Vediamoci questa sera alle sette sul ponte di Castel Sant’Angelo. Sa dov’è? Se la stanno seguendo, arrivi all’ultimo minuto. Se io non ci sono non aspetti e mi ricontatti al telefono».

Sforza scese dall’auto e si avviò a piedi con passo svelto. Percorse il marciapiede del Lungotevere e, raggiunta la statua di san Pietro con la bibbia in mano, all’inizio del ponte, si incamminò sul selciato pedonale.

Avanzò tra le sculture illuminate dei dieci angeli della passione e il parapetto del Bernini.

Quando fu circa a metà del ponte, proprio sotto la figura dell’angelo con la croce, si sentì chiamare.

«Ispettore». Era la voce di Cassini.

Sforza alzò lo sguardo verso la facciata del castello. Improvvisamente, dalla scalinata che scendeva sul letto del Tevere, comparve una figura nera vestita da prete.

Il professore gli andò incontro, tendendo la mano. «Temevo non sarebbe venuto».

L’ispettore gli sorrise. «Mi dovevo sdebitare per l’altra sera… quando non ho risposto alla sua chiamata».

«Sono stato nascosto per tutto il giorno, come mi aveva consigliato».

«L’hanno seguita?»

«No. Non credo, almeno», gemette il professore, timoroso.

«Bene. Ma adesso andiamocene di qui».

I due attraversarono nuovamente il ponte e tornarono sul Lungotevere. Sforza si guardò alle spalle più volte e poi estrasse il cellulare.

Raggiunta l’auto, salirono velocemente e si immisero nel traffico della sera.