Capitolo 20
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Sentiva il respiro affannoso e il cuore battere all’impazzata per l’emozione.
Sentiva l’aria rarefatta, il fresco e, nonostante tutto, il sudore sulla pelle.
Sentiva i sussurri, i bisbigli, le voci, i rumori lontani del traffico.
Davanti a lui c’erano le teste di una decina di persone che camminavano come in processione, ordinatamente, l’una dietro l’atra.
Le seguì lentamente, passo dopo passo.
La luce era debole e penetrava dalle finestre posizionate in alto, sul lato destro del corridoio. Dalla parte opposta c’era una panca di legno e più sopra, galleggianti sul muro candido, frammenti di un affresco.
In fondo si vedeva una porta e un’imponente grata di ferro. Varcò la soglia e si trovò nel porticato di un chiostro verdeggiante. Gli archi che davano sull’esterno erano però sigillati con delle vetrate trasparenti.
Fece pochi metri su un tappeto grigio e si trovò di fronte a un ingresso sbarrato. “Automatic door”, diceva il cartello.
Improvvisamente le due ante si spalancarono e lentamente entrò nel locale. La porta si richiuse subito dopo, lasciandolo in un angusto spazio sigillato. L’attesa durò solo pochi istanti perché una porta con vetri oscurati si aprì in pochi secondi.
Varcò quella soglia e si trovò in un grande ambiente in penombra. Era stretto e lungo, con alcune finestre sul lato sinistro, posizionate in alto e impreziosite da greche ornamentali. Nella parte più corta del salone, illuminato da una fila di faretti bianchi, c’era un affresco: i colori erano pallidi e slavati dal tempo, ma a quella vista il suo cuore cominciò a martellare ancora più intensamente, quasi volesse saltare fuori.
Era lì e respirava quell’aria che sapeva di storia. Poteva sentirlo, avrebbe perfino potuto toccarlo.
Si avvicinò di più, fino a raggiungere una balaustra di metallo posizionata a cinque metri dal muro. L’Ultima Cena era davanti a lui, con la sua bellezza sbiadita e i suoi colori tenui. I tredici commensali, con Gesù al centro, sembravano vivi, pronti a uscire fuori dalla scena. Parlavano e confabulavano tra loro, immortalati per sempre in un istante ricco di azione.
Improvvisamente udì un rumore alle sue spalle. Si voltò di scatto e, come in un sogno, le pareti scomparvero, sostituite da una stanza nera, ricoperta da una rete a maglie verdi fluorescenti.
Rimase per un istante immobile, con lo sguardo fisso sul punto in cui un attimo prima c’era il muro dell’ex refettorio di Santa Maria delle Grazie.
Oltre a quello, anche il pavimento in cotto era scomparso. Adesso vedeva solo un grande reticolo verde, un cuore pulsante appoggiato sul nulla. Poteva seguirne le linee che componevano la maglia, proseguire per alcuni metri in orizzontale e poi alzarsi perpendicolarmente a disegnare un muro immaginario.
Dopo qualche secondo, al posto del reticolo cominciarono a ricomparire le panche di legno. Poi i faretti puntati sulle greche del muro, le finestre adornate con affreschi colorati e i cartelli con il divieto di fotografare. Infine il soffitto bianco a volta.
Voltò di nuovo lo sguardo, per tornare a guardare l’Ultima Cena e anche in quel caso, per qualche istante, l’affresco scomparve, sostituito da un buco nero tappezzato di maglie verdi.
Lo sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn aprì gli occhi. Come la stampa di due negativi, l’immagine del suo laboratorio si sovrappose a quella dell’Ultima Cena.
Della sua giovinezza gli era rimasta solo la passione per l’arte, che era nata molto prima delle lotte di potere che l’avevano costretto all’esilio.
Come molti eredi delle dinastie arabe, aveva studiato in Europa. Aveva trascorso la maggior parte della sua adolescenza in Italia, in un palazzo romano che la sua famiglia aveva appositamente acquistato per farlo studiare.
Quando ancora sul trono sedeva suo padre, si era mescolato all’alta società della capitale. Pur non essendo mai stato un musulmano praticante, non era stato affatto facile integrarsi in una nazione profondamente cattolica. Per esorcizzare le sue diffidenze verso la realtà che lo circondava, aveva deciso di avvicinarsi a un gruppo del quale erano membri alcuni dei suoi docenti universitari. Si trattava dei Cavalieri di Malta, un ordine cavalleresco con una tradizione centenaria che faceva della religione il suo vessillo. Il loro scopo formale era – ironia della sorte – quello di difendere il mondo cristiano da gente come lui. Nonostante ciò, Mohamed si era convinto che farne parte avrebbe potuto aiutarlo a integrarsi meglio.
Come tutti i nuovi Cavalieri, era stato insignito del titolo a San Giovanni Battista in Bragora, una chiesa templare veneziana. Davanti a un prete cattolico, uno greco-ortodosso e uno ortodosso, aveva persino promesso solennemente di difendere la cristianità dagli infedeli.
A differenza di quanto aveva immaginato, l’appartenenza all’Ordine non gli aveva permesso di superare la sua diffidenza verso il cattolicesimo, tuttavia in quella vicenda c’era stato un risvolto positivo: a Venezia aveva conosciuto il Guardiano di Pace Joonas Eklöf, un giovane archeologo finlandese alle prese con il Sex dierum iter, un antico documento rinvenuto pochi anni prima nell’archivio dell’Ordine.
E grazie a quel documento era iniziato tutto…
«Sono arrivate», annunciò uno degli ingegneri, immobile accanto a lui con un tablet in mano.
«Scollegatemi», ordinò lo sceicco attraverso la voce elettronica. Poi ruotò la sedia a rotelle verso l’ingresso.
Era il ventisette dicembre e fuori dal Burj Khalifa il sole era da poco tramontato. I fari delle auto che giravano sulla circonvallazione sembravano lucciole impazzite in cerca di una meta. Esattamente come i getti d’acqua delle grande fontana sotto di lui. Dall’alto di un minareto, si udiva lontana una voce cantilenante.
La porta scorrevole dell’ascensore si aprì e comparvero Meredith, Julia, Dempsey e la Nakamichi.
«Ben arrivati», disse lo sceicco. La sua mimica facciale non gli consentiva di sorridere ma era chiaro che dai suoi occhi traspirava felicità… e speranza. «Ho appena fatto girare il file del 5 dicembre. Avevo ragione, non è un problema di campo magnetico. Quello è stabile».
Il giovane con il tablet in mano annuì.
«È il supporto che non va più bene. Non si tratta di imprimere una corsa in auto… Qui la mole di dati è impressionante: abbiamo stimato sia vicina allo zettabyte. E il supporto a ultrasuoni è troppo limitato…».
«È per questo che siamo qui». Meredith sorrise accarezzandosi la tempia. «Abbiamo il file di Firenze, del soggetto B, memorizzato sul biosupporto».
«Mettiamoci al lavoro». Lo sceicco, felice, girò la sedia a rotelle e tornò verso il centro del laboratorio. Finalmente la sua amata moglie era tornata da lui.
Due ore più tardi Meredith, Julia e lo sceicco erano attorno al tavolo di una grande sala riunioni, sul lato nord-ovest del grattacielo. La luna piena era appesa nel cielo e, davanti al muro a vetri – dal quale si scorgevano le luci degli yacht nel golfo – era sistemata una teca realizzata dall’orafo Cesare Ravasco. Aveva l’aspetto di un grosso cavalletto, con un supporto in alabastro e un tronco di palissandro. La parte superiore sembrava quella di un leggio ricoperto di spesso cristallo: all’interno era sistemato un bozzetto attribuito a Raffaello.
Tutti erano in silenzio, lo sguardo basso.
Dopo alcuni interminabili minuti, fu Al Husayn a prendere la parola. «Oggi abbiamo fatto qualcosa di incredibile. Vi devo ringraziare tutti, il vostro lavoro è stato impagabile. Ovviamente devo ringraziare Meredith, senza il suo cervello, la sua disponibilità… e il suo amore, adesso non saprei quello che so».
Dempsey alzò lo sguardo, avrebbe voluto dire qualcosa ma poi decise di non interrompere.
«Purtroppo», continuò lo sceicco, «le conoscenze che speravamo di acquisire con l’esperimento agli Uffizi, non sono state sufficienti».
«Il cervello decodificherà i file poco per volta… potremmo…». L’americano intervenne timidamente, ma si fermò all’istante.
«No», lo interruppe il padrone di casa.
Per qualche attimo nessuno parlò.
Fu lo stesso sceicco a riprendere il discorso: dopotutto era lui che aveva ideato quella tecnologia e sapeva alla perfezione cosa poteva o non poteva fare. Dempsey si sbagliava. «Paura, speranza e sbalzi d’umore. Sono tutte seccature che non potremo eliminare seguendo questa strada. Sono tutti fattori che compromettono i file».
«Ci dedichiamo a Cassini?», domandò Meredith.
«Gli altri sono andati purtroppo. Ci rimane solo lui. Piazzatelo davanti Gioconda, a costo di costringerlo».
«Potremmo fare in modo che sia Cavalli Gigli a invitarlo… Anche se è morto, potremmo infilarci nella rete informatica del museo…». Dempsey aveva cominciato a picchiettare sui tasti del suo portatile.
«Non lo deve sapere! Questo è il punto. Non voglio che il file sia pieno di dati inutili e fuorvianti».
«Un modo ci sarebbe…», concluse Meredith ammiccando.