Capitolo 80
Candida rosa, 4 febbraio. 9:11.
Sotto la luce delle fotoelettriche e il ronzio ostinato dei generatori diesel, gli uomini piantarono i picchetti e volsero lo sguardo verso Joonas Eklöf.
Nonostante mancasse più di un’ora perché l’alba lacerasse la gelida oscurità in cui era avvolto l’anfiteatro, i geologi erano già al lavoro. Stavano segnando il terreno in cui avrebbero svolto le prime rilevazioni.
Il finlandese osservava l’andirivieni di tecnici operosi in silenzio, le gambe divaricate sulla neve e le braccia conserte. Si trovava sul lato sud dell’anfiteatro, in compagnia del capo geologo Hólmar Bjarnason e dello storico Jari Johansson. Dietro di lui c’era Manuel Cassini, con uno sguardo assonnato, e l’affascinante bionda che sembrava non abbandonarlo mai. L’unico che mancava era il principe, che però aveva promesso di raggiungerli più tardi.
Si voltò verso la roccia a forma di aquila, dalla parte opposta alla zona in cui avevano lasciato i fuoristrada: la statua era ormai delimitata da un vistoso nastro giallo e alcuni uomini la stavano misurando con un laser.
Nonostante l’attività fosse frenetica e il vociare ininterrotto, Eklöf era assorto nei suoi pensieri, più preoccupato di quanto avrebbe immaginato.
Alcune settimane prima, dopo essersi recato alle cascate per i primi sopralluoghi, si era convinto che in quel luogo sarebbe stato impossibile trovare qualcosa. Era troppo ampio, senza un punto preciso in cui scavare. Se davvero il tesoro che gli avevano imposto di occultare si trovava lì, sarebbe stato come cercare un ago in un pagliaio.
Da archeologo sapeva che era una sconfitta, ma d’altra parte, non trovare nulla gli avrebbe risparmiato un ennesimo colloquio con il Toro. E un vile tradimento che proprio non riusciva a digerire.
Ma adesso la situazione si era complicata: appena Cassini aveva riconosciuto in quell’anfiteatro naturale la candida rosa dei beati, lui aveva cominciato a sudare. Quella conca naturale sembrava avere tutte le caratteristiche che Dante aveva disseminato nella Divina Commedia. Inoltre aveva anche un punto di riferimento preciso dove scavare: la statua dell’aquila, ammesso che fosse davvero una scultura.
«Posso domandarle perché è così certo che il tesoro sia sotto l’aquila?», domandò a Cassini, con tono cordiale.
Il professore alzò lo sguardo. Nella semioscurità, le luci artificiali davano una colorazione azzurrastra ai lineamenti rudi di Eklöf. Una coda di cavallo sbucava dal copricapo e una nuvoletta di vapore ristagnava davanti alle labbra screpolate dell’archeologo.
«Dopotutto, questo anfiteatro è molto grande», continuò il finlandese, spostandosi di qualche passo verso di lui. «Visto dalla mappa satellitare ha un diametro di sessantatré metri… L’aquila non potrebbe essere semplicemente un simbolo per rendere più riconoscibile l’intera area?».
Il professore si strinse nelle spalle. «Potrebbe… ma il simbolo dell’aquila è molto importante nel Paradiso dantesco: nel canto VI l’aquila viene paragonata al potere imperiale, lo stesso potere che per mano di Dio ha creato la Roma papale. L’aquila è il simbolo ideale sotto il quale nascondere un eventuale tesoro dei templari».
Eklöf deglutì e volse lo sguardo verso gli altri uomini. Sul terreno erano state realizzate le linee di rilevazione.
«Ci siamo», urlò dall’avvallamento Kjell Lagerbäck, il responsabile della Geosync, la ditta presso la quale avevano noleggiato i georadar a 100 MHZ. Si trattava di dispositivi simili a grossi tosaerba, che grazie a potenti antenne erano in grado di sondare il sottosuolo fino a una profondità di otto metri. Se, come Cassini pensava, ci fosse stata una sorta di stanza, o di camera sepolta, con i tracciati dei georadar sarebbe stata subito evidente.
Il lavoro proseguì spedito per alcune ore e verso l’una, una voce gutturale chiamò tutti i tecnici attorno a un falò poco distante dallo scavo.
La cucina da campo era stata montata nei pressi di una feritoia irregolare che, a causa delle recenti nevicate, sembrava cosparsa di sale finissimo.
Mentre un fronte nuvoloso avanzava minaccioso da sud, con due arcobaleni sovrapposti che sembravano indicargli la strada, i presenti si sedettero attorno al tavolo di plastica. Il morale era alto, anche se era chiaro che quel giorno nessuno avrebbe toccato né una pala né un piccone. Per essere certi della posizione della camera del tesoro, era infatti necessario attendere l’elaborazione dei tracciati dei georadar. Nessuno sapeva quanto tempo avrebbe richiesto, ma di sicuro alcuni giorni.
Quando rientrarono al campo base era ormai buio pesto. I tecnici scaricarono l’attrezzatura dai veicoli e poi, stanchi, si diressero verso i propri camper tra schiamazzi e risate sommesse.
«Quando saranno pronti i risultati delle rilevazioni?», domandò Cassini a indirizzo di Kjell Lagerbäck.
«Non è facile dirlo». L’uomo si strinse nelle spalle. Poteva avere cinquant’anni e sembrava più un critico d’arte che un geologo abituato a lavorare sul campo. «Dipende dai dati raccolti: a volte l’interpretazione è semplice, altre volte, se nel terreno vi sono fenditure, è più complessa».
«Aiuto. Qualcuno mi aiuti!», la voce di Julia irruppe nella loro conversazione.
In una frazione di secondo Cassini si mise in moto, raggiunse il camper e si fece largo tra i geologi che erano accorsi prima di lui.
I tecnici erano in cerchio, attoniti, intorno allo sportello spalancato dal quale filtrava una debole luce giallognola.
Nessuno parlava.
Il professore si fece largo e salì i gradini.
Julia era da sola, immobile nel centro del veicolo, con lo sguardo perso nel vuoto e le mani tremanti.
Cassini si avvicinò, circospetto, seguito da un lieve brusio alle sue spalle. Con calma le prese la mano e la guardò in viso. La sua non era un’espressione di paura, piuttosto sembrava disorientata, come una bimba che abbia perso la mamma in un supermercato.
«Cosa succede?», le domandò, con voce calma.
Lei non rispose, con gli occhi bassi fissava la valigetta nera nella quale era custodito il dispositivo di Brain Control. Era aperta.
«L’hanno rubato», balbettò.