Capitolo 81

 

 

 

 

 

Reykjavik, 5 febbraio. 14:45.

 

L’Harpa, l’ardita costruzione che ospita il centro congressi di Reykjavik, è uno smisurato caleidoscopio di vetro e acciaio. Nelle sue facciate spigolose, ispirate alla forma del cristallo, si riflettono e si mescolano i colori sgargianti della città.

Al suo interno, oltre ad alcune sale conferenze, ospita la sala concerto della Iceland Symphony Orchestra. Era quella la ragione principale per la quale Hidetoshi Tanaka aveva scelto l’Harpa come luogo dell’appuntamento: voleva vederla, magari immaginandosi sul palco a cantare il Sigfrido di Wagner.

Appena le porte scorrevoli lo risucchiarono nel foyer fu investito da una folata di aria calda che lo costrinse a slacciarsi il cappotto.

L’atrio, alto quattro piani e sormontato da una grande balconata di cristallo era praticamente deserto. Giochi di luce riflettevano il cielo, le imbarcazioni, i veicoli che transitavano sulla Kalkofnsvegur e persino la lontana penisola dello Snæfellsnes.

Guardò l’orologio e si spostò di qualche passo in direzione della scalinata, alla sua sinistra. Era in perfetto orario, ma la persona che avrebbe dovuto incontrare non era ancora arrivata.

A ridosso del muro di basalto erano posizionati due dipinti di grandi dimensioni e una vetrina. All’interno faceva bella mostra di sé uno splendido vaso russo con decorazioni a sfondo azzurro.

“Dono dell’Unione Sovietica per il summit USA-URSS. Reykjavik, ottobre 1986”, recitava la targhetta.

Tanaka fece per salire la scala, quando udì un rumore alle sue spalle.

Si voltò di scatto e dalla parte opposta individuò tre energumeni che spalleggiavano un giovane arabo con il pizzetto; indossava un giaccone nero e la caratteristica shemagh a scacchi rossi e bianchi. In mano stringeva un grosso borsone con i manici.

Il giapponese sorrise e a grandi falcate gli andò incontro, tendendo la mano. «Piacere di conoscerla, principe».

Ibrahim sbuffò: non era per nulla contento di essere lì e non esitava a nasconderlo.

Quel dispositivo l’aveva costretto ad affrontare complicazioni di ogni genere. Ciò che doveva costituire una semplice merce di scambio per il colpo di Stato contro suo zio, si era trasformato in una vicenda grottesca. Per di più, aveva comportato danni collaterali ingenti, come la morte della sua matrigna. Non l’aveva mai amata e, probabilmente, il fatto che lei fosse stata uccisa aveva avvicinato suo padre alla tomba. Tuttavia il comportamento dell’uomo che aveva di fronte era stato tutt’altro che da professionista.

Prima di porgere il borsone, si domandò per l’ennesima volta se Edward e quel giapponese fossero davvero in grado di garantirgli ciò che desiderava. Nel dubbio, si convinse di aver fatto bene a riservarsi un piccolo vantaggio…

«Chi sono loro?», lo interrogò Tanaka, indicando i tre uomini.

«Una piccola assicurazione sulla vita», fu la risposta del principe.

«Ha portato…?», domandò ancora Tanaka, un filo di incertezza nella voce.

Il principe non replicò, cercando nel frattempo di leggere nello strano sguardo dell’uomo le sue intenzioni.

«Ho una macchina con autista qui fuori… se preferisce…», insistette il giapponese.

«Questa faccenda doveva essere una banalità», ringhiò infine Ibrahim, digrignando i denti in una smorfia rabbiosa. «Edward mi aveva assicurato che vi sareste occupati voi di tutto… eppure il lavoro ho dovuto farlo io!».

Tanaka si strinse nelle spalle. «Purtroppo, ci sono state delle complicazioni». Avvicinò le mani al borsone per farselo consegnare e continuò: «Se non le dispiace… questo lo prendo io».

«Si rende conto…». Il principe non riuscì a finire la frase, perché da oltre la scalinata un vociare convulso attirò la sua attenzione.

I corpi speciali della polizia islandese irruppero da ogni lato: dal ballatoio, dalla scalinata, dall’atrio e perfino dalla sala congressi.

Sul piazzale si fermarono alcuni veicoli con le sirene spiegate. Agenti con tute antisommossa e fucili mitragliatori spianati scesero all’unisono.

«Nessuno si muova!», ordinò una voce. «Mani in alto!».

I militari si avvicinarono a Tanaka, pistola in pugno e sguardo truce.

Dietro di loro avanzava, con incedere deciso, un uomo sulla cinquantina, capelli a spazzola, jeans e occhiali da sole.

Il giapponese, immobile, studiò la situazione, domandandosi se quello spiegamento di forze fosse per lui o per il principe.

Non sospettava che da quando Nigel Sforza l’aveva individuato nel suo hotel nei pressi dell’Althing, la polizia islandese non l’aveva perso di vista un secondo.

L’ispettore, che ormai riteneva che il suo assassino fosse in trappola, aveva però deciso di non arrestarlo immediatamente. Da un’intercettazione telefonica, era infatti emerso che il ricercato avrebbe dovuto incontrare una persona al centro congressi, per la consegna che era “saltata a Parigi”.

La mente di Sforza era andata al dispositivo e così aveva deciso di attendere fino a quel momento.

Il giapponese si guardò intorno: sembrava non ci fosse alcuna via d’uscita. Gli agenti erano da tutte le parti e si avvicinavano con una manovra a tenaglia. Il principe era a un metro da lui, paralizzato e con un’espressione di terrore stampata sul viso violaceo. Oltretutto, aveva stretto la valigetta al petto e non sembrava avesse intenzione di lasciarla.

Nei pressi del vaso russo, intanto, le guardie del corpo di Ibrahim avevano imbracciato le rivoltelle e, spalla contro spalla, si erano disposte a semicerchio.

«Signor Tanaka… è questo il suo nome, giusto? Piacere di conoscerla». La voce di Sforza arrivò da pochi metri di distanza. «Mi ha fatto girare mezza Europa, ma alla fine ci conosciamo». L’ispettore si fece avanti, camminando lentamente in direzione di un raggio di sole che tagliava in due il foyer.

Il giapponese lo ignorò. Ormai aveva elaborato il suo piano di fuga. Mosse la mano destra in maniera impercettibile e sfiorò il calcio della Walther PPK.

Un secondo dopo, la situazione precipitò. Tutto successe in maniera così veloce che il principe non se ne rese conto. Il giapponese estrasse l’arma, tese la mano e tirò il grilletto verso di lui.

Lo sparo echeggiò fino al quarto piano e Ibrahim barcollò all’indietro, come spinto da una forza invisibile.

La pistola dorata del giapponese, con la canna fumante, brillò alla luce del sole.

Il principe sgranò gli occhi. Poi sentì le forze abbandonarlo. Portò la mano alla spalla per tamponare la ferita e immediatamente dopo sentì la presenza di Tanaka su di lui.

«Se non volete che il prossimo colpo gli trapassi il cranio, credo che dovrete lasciarmi andare».

Lo stallo durò solo un attimo, perché le guardie del corpo di Ibrahim cominciarono a sparare all’impazzata.

Il loro bersaglio avrebbe dovuto essere solo Tanaka, eppure, senza sapere come, un proiettile colpì uno degli agenti, che cadde a terra esanime.

Gli altri poliziotti risposero al fuoco, e l’androne si trasformò in un campo di battaglia. Il ballatoio di cristallo esplose in migliaia di frammenti e anche dalla parte opposta, sulla vetrata del piazzale, ci fu un’esplosione.

Qualche sirena echeggiò lontana, seguita da un allarme e coperta dal concerto di spari e scariche di mitra. Subito dopo, gli idranti antincendio si azionarono, inondando il foyer di una pioggia bianca e gelata.

Sforza, completamente fradicio, si sdraiò sul pavimento; se avesse potuto scavare per nascondere la testa sotto la sabbia lo avrebbe fatto. Davanti a lui, si era accasciato un altro dei soldati islandesi. L’ispettore strisciò fino a raggiungerlo e si fece scudo con il suo corpo.

Intanto Tanaka, con un braccio attorno al collo del principe e la pistola puntata alla tempia, stava indietreggiando verso l’uscita. Tutto stava andando come programmato. Le guardie del corpo del principe – usato come ostaggio – avevano reagito al suo sparo esattamente come si sarebbe aspettato.

Sul piazzale, intanto, nella direzione in cui stava tornando il giapponese, c’erano tre camionette ferme con i lampeggianti inseriti. Dietro gli sportelli spalancati sbucavano le canne dei fucili di precisione. Ma quel dettaglio non lo preoccupava affatto. Fissò l’atrio: i getti degli idranti lo schiaffeggiavano incessanti e gli agenti dei corpi speciali, ormai fradici, rispondevano al fuoco degli uomini di Ibrahim.

Il principe intanto opponeva una resistenza passiva: aveva smesso di camminare con le sue gambe e Tanaka era costretto a trascinarlo. Il borsone era ancora stretto nella sua mano, ma proprio in quell’istante, Ibrahim fece un gesto inconsulto: raccolse tutte le forze e lo lanciò verso la scala, il più lontano possibile dal giapponese.

“Bastardo”.

Tanaka gettò una fugace occhiata alle sue spalle e individuò ciò che sperava. In una frazione di secondo decise: quell’operazione era fallita, ma non poteva anche rischiare di essere arrestato.

In un impeto di rabbia, schiacciò la pistola contro la testa di Ibrahim e premette il grilletto. Uno schizzo di materia grigia si riversò a terra, tra frammenti di vetro e cartucce già esplose.

Un istante dopo, un nuovo boato scosse l’edificio. Una grossa BMW nera sfondò la vetrata laterale della hall e piombò al centro del grande locale. I frammenti di cristallo della parete disintegrata si sparsero sul pavimento.

Dalle porte d’ingresso i cecchini cominciarono a sparare una pioggia di proiettili, che però non andò a segno; Tanaka si infilò sul sedile posteriore dell’auto blindata e richiuse lo sportello. Le pallottole rimbalzarono sulla carrozzeria del veicolo, che in retromarcia ritornò sul piazzale.

In pochi istanti, la BMW, approfittando della sparatoria che teneva ancora impegnati gli agenti della polizia, fece inversione e si dileguò verso il porto.

 

Dieci minuti dopo, quando la pioggia di fuoco incrociato si arrestò, riversi sul pavimento si trovavano diversi agenti delle forze speciali. Con loro c’erano anche tutti gli uomini della scorta del principe e Ibrahim.

Sforza si alzò in piedi, le gambe instabili. Si era salvato per miracolo.

Girò su se stesso, come smarrito, e si mosse di qualche passo senza una direzione precisa. La suola delle sue scarpe scricchiolò sotto i frammenti di vetro. A tre metri da lui notò il borsone che il figlio dello sceicco aveva lanciato in un ultimo tentativo di salvarsi la vita.

Sforza lo raggiunse e lo tirò a sé.

Era nero, molto leggero, e con un logo rosso disegnato nella parte laterale: Geosync. Fece scorrere la cerniera e all’interno trovò un parallelepipedo d’alluminio satinato, poco più grande di un iPod: un disco a ultrasuoni identico a quello che aveva visto ai Musei Vaticani la vigilia di Natale, ma questo sembrava integro.

Insieme al dispositivo, c’era anche un foglio di carta piegato in quattro parti. Lo aprì e lo lesse con calma:

 

Questo è solo l’antipasto. Gli OCST sono già in mio possesso, ma li avrai a lavoro compiuto.

La chiave di Dante
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