Capitolo 63

 

 

 

 

 

Lione, 28 dicembre. 09:33.

 

«Chi è lei?», esordì pacato Sforza, sprofondato nel sedile di pelle. Di fronte a lui c’era una donna bionda con uno sguardo glaciale.

Era appena uscito dal laboratorio di Fabien Bérot – il tecnico informatico dell’Interpol – con più domande che risposte, e l’auto l’aveva raggiunto fuori dal palazzo.

Erano i primi giorni dell’indagine, poco dopo il ritrovamento del corpo di Andrea Cavalli Gigli. L’incontro che nella mezz’ora precedente aveva avuto con il nerd era stato tutt’altro che chiarificatore.

Per il giovane, il piccolo microchip danneggiato rinvenuto in Vaticano era un concentrato di tecnologia, del quale, tuttavia, non aveva compreso il reale scopo. «Se funzionasse, i brevetti di quest’oggetto sarebbero di grande valore», aveva però notato, con il suo tipico viso piatto e il tono inespressivo.

In quell’istante Sforza – che si era da poco separato dalla moglie Claudette e aveva qualche problema per debiti di gioco – non aveva capito l’importanza di ciò che aveva visto. Poco dopo, tuttavia, era accaduto un evento del tutto inaspettato che aveva contribuito ad aprirgli gli occhi: dall’angolo della strada era arrivata un’auto nera con i vetri oscurati. «Abbiamo delle informazioni per lei su monsignor de Beaumont», aveva detto il passeggero, che mostrandogli il disegno di uno dei microchip di actina, lo aveva invitato a salire.

Nell’abitacolo aleggiava un leggero odore di vaniglia e una melodia di sax risuonava in sottofondo. L’auto era una grossa Bentley, con la plancia che sembrava quella di un’astronave, interni color champagne e inserti lucidi in radica. Sui poggiatesta anteriori erano integrati due schermi touchscreen visibili dai passeggeri. Tra i sedili c’era un piccolo tavolo di legno chiaro, sopra una bottiglia di cabernet-sauvignon aperta, con un solo calice.

«Sappiamo che ha qualche problema economico», esordì la donna, accavallando le gambe. Indossava dei tacchi vertiginosi e dei pantaloni attillati.

L’ispettore la osservò meglio.

Non ne era certo, ma gli pareva di averla già vista: era giovane, sui venticinque anni, bionda, con un naso all’insù e grandi occhi smeraldo.

«Capita…», ammise pacifico. «I soldi vanno e vengono».

«Nel suo caso oggi potrebbero venire! Sempre che decida di ascoltarmi».

L’ispettore si strofinò la barba incolta e inarcò il sopracciglio. Non era mai stato troppo ligio alle regole e spesso la sua condotta era un abile equilibrismo tra le zone grigie della legge. Non aveva mai commesso reati eclatanti, ed era quasi sempre rimasto nella legalità. Le conoscenze che aveva però acquisito con il suo lavoro gli avevano permesso di integrare lo stipendio che gli pagava l’Interpol. In quel modo aveva potuto condurre lo stile di vita agiato che tanto gli piaceva. «Sono tutto orecchie», disse, asciutto.

«Quattro giorni fa, dopo la morte di monsignor de Beaumont, due piccoli microchip e un dispositivo di alluminio sono stati rinvenuti in Vaticano», cominciò lei.

«Temo di non poter rivelare questo tipo di informazioni. C’è un’indagine in corso».

La donna sorrise, rivelando una dentatura bianca e lucente. «Non glielo sto chiedendo… So che è così!».

L’ispettore si lasciò cadere sul sedile e incrociò le braccia con un gesto teatrale.

«Quegli oggetti ci appartengono e li rivorremmo».

Dritta al punto, senza giri di parole.

«Cosa le fa credere che io sia in grado di farglieli avere?».

Lei lo fissò con i suoi occhi profondi e, dopo un secondo di finta esitazione, porse a Sforza un foglio di carta piegato in quattro parti.

«Centomila?», esclamò dopo averlo letto. «Centomila cosa?»

«Euro, o dollari se preferisce…», sorrise lei. «Anche se al cambio non so se le conviene».

Sforza deglutì. Quel foglietto era un tentativo di corruzione.

Centomila euro.

«Mi spiace. Ciò che mi sta chiedendo è un reato!». Restituì il biglietto e afferrò la maniglia dello sportello.

«Decida lei la cifra! I soldi non sono un problema», insistette la donna, mentre lui stava scendendo.

“Ora si ragiona”.

Tutti hanno un prezzo e Sforza non era da meno: se doveva rischiare il posto, però, doveva farlo per molto più di centomila euro.

«Aggiunga uno zero», rilanciò deciso. Era una cifra enorme, certamente molto più di quanto si sarebbe accontentato.

Lei non mosse un muscolo e senza esitazione annuì. «Ok».

L’ispettore rientrò in macchina e chiuse nuovamente lo sportello.

«Ma per quella cifra dovrà rendersi utile anche in un altro modo…».

“In che senso?”, avrebbe voluto domandare. Ma attese che fosse lei a spiegarlo.

«Dopo la morte di Cavalli Gigli, durante la sua indagine potrebbe imbattersi ancora in dispositivi simili… Le chiedo discrezione. Qualsiasi informazione dovesse avere, prima di condividerla con i suoi superiori, la dovrà comunicare a noi. Saremo noi a dirle se farla scomparire dai verbali o se è insignificante».

Sforza annui più volte con il capo. In fondo non gli chiedeva granché, se sull’altro piatto della bilancia metteva un milione di euro.

Terminati gli accordi sulle modalità di pagamento, in meno di mezz’ora illustrò in quale laboratorio erano custoditi i microchip. Fornì alla donna tutte le informazioni operative, la posizione e la combinazione della cassaforte e i codici di accesso alle serrature.

Per sua fortuna, spiegò, i dispositivi erano ancora all’esame della Scientifica: se fosse arrivata qualche giorno dopo, sarebbero stati trasferiti nel deposito prove. Li sì che sarebbe stato impossibile recuperarli. Così, invece, con quell’idiota di Bérot totalmente impegnato a giocare ai videogiochi, era “praticamente un gioco da ragazzi”.

 

Tre giorni dopo, la sera di Capodanno, qualcuno si intrufolò nel laboratorio dell’Interpol, e con le indicazioni fornite dall’ispettore si impossessò dei microchip danneggiati e del dispositivo di archiviazione.

Sforza aveva guadagnato una cifra considerevole. In cambio si era impegnato ad avvisare la donna nel caso in cui, durante l’indagine, si fosse imbattuto ancora in dispositivi simili. Esattamente quanto era accaduto la settimana successiva, quando Manuel Cassini gli aveva telefonato da Roma. «Ho bisogno del suo aiuto», gli aveva detto con una voce tremolante e un tono da funerale.

Dopo il messaggio lasciato in segreteria, in cui il professore aveva parlato dei microchip, e quella nuova telefonata, Sforza aveva semplicemente messo assieme gli indizi. Aveva composto il numero e aveva riferito tutto alla donna. Lei si era rivelata particolarmente felice, tanto che l’ispettore si era sentito libero di concludere con una battuta: «Se dobbiamo continuare a sentirci per le nostre telefonate d’amore… almeno questa volta potrebbe dirmi come si chiama».

«Mi chiami pure Julia».

La chiave di Dante
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