Capitolo 85
Dubai, 6 febbraio. Ora locale 07:57.
Ahmed Jaafar entrò nel garage interrato del Burj Khalifa in perfetto orario, come ogni mattina.
Lasciò l’utilitaria bianca, con il logo dell’ospedale, nel suo solito posto accanto a una colonna arancione e si diresse agli ascensori.
In mano aveva la sua vecchia borsa di pelle nera. Era l’unico ricordo di quando, a Baghdad, esercitava la professione di medico.
A causa della guerra, nel marzo 2003 era dovuto fuggire dalla sua città, dalle sue amicizie e dalla sua professione. All’età di trentacinque anni si era rifugiato a Dubai dove aveva trovato lavoro all’ospedale. Purtroppo il suo titolo di studio non era stato riconosciuto e quindi si era dovuto accontentare di un contratto come inserviente.
Anche se lo stipendio gli consentiva di condurre una vita dignitosa, non aveva mai accettato quello che considerava un demansionamento a livello professionale. Aveva vissuto quegli anni come un lunghissimo limbo, in attesa che, in un modo o nell’altro, la sua bravura fosse in qualche modo riconosciuta. Ma purtroppo non era ancora successo e nel frattempo, per cercare di guadagnare qualche soldo extra, a volte si occupava di seguire clienti speciali in privato.
Mohamed bin Saif Al Husayn era uno di quelli e tutte le mattine alla stessa ora saliva al centosettesimo piano del grattacielo più alto del mondo. Cambiava la flebo, gli somministrava una soluzione glucosata e se era necessario medicava la ferita del catetere.
Di solito non era un lavoro molto stimolante, ma almeno era ben pagato.
A differenza degli altri giorni, quella mattina Ahmed aveva però un compito ben più importante da portare a termine. Non aveva mai fatto una cosa del genere ma era certo che non avrebbe avuto difficoltà, soprattutto se avesse pensato a cosa lo attendeva poche ore dopo.
«Oggi va meglio?», azzardò il medico appena le porte dell’ascensore si furono aperte sul grande atrio.
Un uomo anziano, con una tunica bianca e lo sguardo lugubre, gli si fece incontro scuotendo il capo. «Sempre peggio», sussurrò appena. «Fa sempre più fatica a respirare».
Ahmed annuì. «È normale, è dispnoico: i muscoli respiratori sono in deficit. E lo saranno sempre di più».
«Ieri però stava meglio», esclamò il vecchio, con una punta di tristezza negli occhi.
Il medico alzò le spalle e non replicò.
Attraversarono il corridoio con il pavimento di palissandro e si infilarono nella stanza da letto dello sceicco. Era sdraiato sul letto, lo sguardo perso in uno schermo OLED curvo posizionato davanti agli occhi.
Nell’ultimo mese le sue condizioni si erano aggravate e lo avevano costretto a rimanere lontano dalla sua sedia per diverse ore al giorno. Tuttavia, i medici gli avevano assicurato che se si fosse riguardato avrebbe potuto vivere almeno un altro anno, forse anche di più. Ed era ciò di cui aveva bisogno, in attesa che dall’Islanda arrivassero buone notizie.
«Buongiorno maestà», lo salutò Ahmed fissando i suoi occhi scavati. Si vedeva chiaramente che era in debito d’ossigeno. «Adesso le cambio la flebo e vedrà che si sentirà meglio».
Sorridendo sostituì la boccetta di vetro con una nuova e la collegò al cateterino venoso. Sul supporto a fianco del letto, posizionò un contenitore identico nell’aspetto, che avrebbe cominciato a rilasciare il liquido non appena fosse terminato il primo.
Era la stessa procedura che compiva ogni mattina, ma quel giorno le mani gli tremavano.
«Buon appetito», gli disse, senza guardarlo in viso prima di chiudersi la porta alle spalle.
Mentre scendeva con l’ascensore, fece un rapido calcolo: il primo recipiente si sarebbe consumato nel giro di un’ora e il secondo sarebbe durato invece molto meno. Aveva tutto il tempo per raggiungere il luogo dell’appuntamento.
Verso le nove, Ahmed Jaafar indossò una tuta in Gore-Tex e noleggiò degli splendidi sci da slalom gigante. Poi si avviò alla biglietteria dello Ski Dubai, l’immenso complesso – all’interno di uno sterminato centro commerciale – che ospitava la stazione sciistica coperta della città.
Si guardò intorno, in cerca dell’uomo che l’aveva avvicinato pochi giorni prima. Lo individuò senza fatica, tra un maestro di sci alle prese con quattro bambini e un tizio con il cellulare in mano.
Rafael, il collaboratore più fidato di Tanaka, era lì. La sua pelle color ebano risaltava come un faro sulla giacca bianca. Quando lo vide, sorrise.
Ahmed si liberò degli sci e saltellando sugli scarponi lo raggiunse.
«Missione compiuta?», domandò Rafael, con distacco, la voce gutturale.
Il medico annuì. «Lei ha portato i soldi?».
Il gigante slacciò la cerniera del giubbotto e mostrò una grossa busta gialla. «Fino all’ultimo centesimo! Si è guadagnato una pensione dorata con qualche anno d’anticipo».
Ahmed fece una smorfia. Non credeva che sarebbe stato così facile, eppure non aveva avuto problemi. Dopotutto, forse, aveva quasi fatto un favore allo sceicco.
Non era il modo in cui aveva pensato di sistemare la sua vita, ma lo considerava un risarcimento per tutte le ingiustizie subite. Quell’incontro era stato un colpo di fortuna: a Rafael serviva una persona con libero accesso all’appartamento di Al Husayn e in cambio di un piccolo aiuto gli avrebbe consegnato un grosso assegno.
«Non potevate semplicemente attendere che venisse il suo momento?», si informò, schietto, il medico. «Ormai era davvero imminente».
Rafael gli mise in mano la busta e poi sorrise di nuovo. «Purtroppo i nostri tempi non coincidevano con quelli della biologia…».
Più o meno nello stesso istante, al centosettesimo piano del Burj Khalifa, la seconda flebo entrò in funzione.
Il cloruro di potassio, che Ahmed Jaafar aveva travasato nel contenitore della soluzione glucosata, cominciò a scendere lungo il tubicino e arrivò al catetere venoso di Al Husayn. A meno che non avessero compiuto esami del sangue specifici, non sarebbe stato individuato e la morte sarebbe stata ascritta a un attacco cardiaco.
E infatti, quasi all’istante, il cuore dello sceicco cominciò ad avere delle aritmie. Ad Al Husayn parve mancare l’aria e il freddo lo avvolse.
Senza quasi accorgersene, la stanza che aveva di fronte, il grande schermo curvo, il dipinto di Tiziano, la teca di Cesare Ravasco scivolarono nell’oscurità.
Prima di fermarsi, il cuore cominciò a pompare più velocemente, poi, come un motore rimasto senza benzina, sobbalzò e si spense per sempre.