Capitolo 14

 

 

 

 

 

Colline del Chianti, 27 dicembre. 17:45.

 

Nigel Sforza raggiunse la villa poco dopo l’imbrunire.

Il freddo era pungente e una fitta nebbia avvolgeva la vallata come un grande mantello. Il silenzio regnava sovrano, spezzato solo dall’abbaiare di un cane in lontananza. Il lampeggiante di un’auto dei carabinieri disegnava ombre lunghe e biancastre sui visi infreddoliti dei presenti.

«Piacere di conoscerla», esordì un uomo in abiti civili che attendeva l’agente dell’Interpol all’ingresso. «Sono il commissario dei carabinieri Alessandro Pitti. Scusi l’ora, so che era in partenza…». Era più basso di lui e quasi certamente più giovane. Aveva un naso adunco che emergeva tra gli occhi vispi e due guance glabre e paonazze.

«Mi hanno detto che qui c’è qualcosa che devo assolutamente vedere». Sforza restò impassibile, ma subito dopo sorrise e alzò le spalle.

Non era affatto dispiaciuto di rimanere un’altra notte a Firenze. Era un uomo che amava i begli alberghi, i ristoranti e la bella vita in genere.

Per garantirsi lo stile di vita a cui si era abituato non guardava in faccia nessuno. Era sempre stato un opportunista, pronto a sfruttare ogni occasione che gli si presentasse davanti.

Cresciuto in una famiglia benestante, l’Interpol era stata la sua prima e unica occupazione. Certo, lo stipendio non era granché, ma quel ruolo gli dava modo di viaggiare molto e di incontrare parecchia gente. E le conoscenze acquisite gli avevano sempre consentito di integrare le sue entrate, rimanendo quasi sempre nei limiti della legalità.

Era entrato nell’edificio di Lione all’età di venticinque anni e dopo due decenni, al netto delle critiche per la sua vita privata, era comunque considerato uno dei migliori ispettori. Dotato di un grande fiuto, spesso riusciva a vedere quello che gli altri non notavano. Negli anni si era dedicato a casi che andavano dal traffico di droga e di armi, fino allo spionaggio industriale. Aveva collaborato con la polizia di quasi tutti gli Stati dell’Unione, girando il continente in lungo e in largo.

Si era sposato molto giovane con Claudette. La sua convinzione che il matrimonio non fosse allo stesso modo vincolante per l’uomo e la donna, aveva però fatto presto naufragare la sua unione.

E lei non l’aveva presa bene. Con una schiera di avvocati da far impallidire un oligarca, nella causa di divorzio l’aveva sconfitto su tutti i fronti. Lo aveva dipinto come bambino non cresciuto, una sorta di Peter Pan che pensa solo a divertirsi e per il quale la famiglia non conta nulla.

La cosa più triste, per lei, era che aveva detto semplicemente la verità: Nigel Sforza era un “quasi cinquantenne” che vestiva di pelle e jeans, che pensava alle belle macchine e a divertirsi con le donne. Il suo idolo era sempre stato George Best. «Ho speso molti soldi per alcol, donne e macchine veloci… il resto l’ho sperperato». E Sforza lo ripeteva fino alla noia.

 

Strinse la mano a Pitti e si guardò intorno, come un avvoltoio alla ricerca di una carcassa da spolpare. Fuori dal cancello, nella penombra nebbiosa che lo circondava, aveva notato tre auto dei carabinieri. Nel piazzale, invece, c’era una grossa limousine nera con lo sportello dell’autista aperto. Era delimitata con un filo di nastro giallo.

«Il procuratore della Repubblica ci ha avvisato della sua indagine a supporto della Gendarmeria Vaticana», continuò il commissario. «Sapeva del suo incontro di ieri con Andrea Cavalli Gigli e ha pensato che questo caso potrebbe essere in qualche modo collegato».

«Due cadaveri?», si informò Sforza, mentre seguiva l’altro all’interno della grande casa.

«Affermativo».

«Cosa sappiamo con esattezza?»

«Si tratta di due maschi…». Pitti fece strada attraverso un ampio corridoio. Le pareti erano rivestite di ardesia e il pavimento in parquet di rovere. Su una mensola di cristallo erano posizionate alcune fotografie.

«Quello fuori aveva un visto degli Emirati Arabi Uniti», proseguì il commissario. «Probabilmente era alla guida della limousine, che risulta di proprietà della famiglia Al Husayn. Il secondo lo conosceva: il padrone di casa Andrea Cavalli Gigli».

I due raggiunsero la porta della biblioteca ed entrarono. All’interno c’erano alcuni agenti che girovagavano per la stanza senza un’apparente meta. La vetrata che dava sul giardino era in frantumi e i frammenti di vetro erano sparsi sul pavimento e sulle beole del cortile. «I tecnici del RIS hanno stabilito l’ora del decesso?»

«I corpi sono stati rinvenuti solo oggi, dopo pranzo. La moglie di Cavalli Gigli ha passato il Natale con i suoi genitori ed è tornata questa mattina». Una nuvola di condensa dovuta al freddo uscì dalle labbra pallide e screpolate del carabiniere. «A un primo esame il medico legale ipotizza che siano deceduti almeno da ventiquattr’ore. Comunque potrà essere più preciso appena avrà completato tutti gli accertamenti».

Poco dopo che l’aveva incontrato quindi, rifletté Sforza. Si voltò verso la porta ed esaminò alcuni fori di proiettile. Lì accanto, su uno dei grandi scaffali della libreria, c’era una fila di libri tutti uguali, con il dorso blu e i caratteri bianchi. Nell’ultimo di quei libri c’era uno squarcio, dovuto probabilmente a una pallottola.

«Ci sono telecamere di sorveglianza?», incalzò distaccato, quasi fosse certo che la risposta fosse negativa.

«Purtroppo no», confermò Pitti scuotendo la testa.

«Dell’uomo fuori cosa mi dice?»

«Sgozzato. Un colpo secco alla trachea».

«Mi ha detto che l’auto risulta intestata alla famiglia Al Husayn?»

«Affermativo». Pitti indugiò per un istante. «Mi scusi un secondo…», borbottò mentre si spostava in direzione della scrivania che stava dalla parte opposta della biblioteca. Uno degli agenti gli aveva fatto cenno con la mano di avvicinarsi.

Sforza, nel frattempo, andò verso la vetrata. Continuava a ripensare alla donna conosciuta il giorno precedente alla Galleria degli Uffizi. «Le presento Meredith Al Husayn, moglie dello sceicco Mohamed bin Saif Al Husayn», aveva detto il soprintendente. «Uno dei benefattori più generosi della Galleria».

Meredith Al Husayn.

Non credeva alle coincidenze ed era improbabile che fosse un caso di omonimia… In qualche modo quella donna era collegata al duplice omicidio.

L’agente dell’Interpol si abbassò per osservare una macchia di sangue nei pressi della porta-finestra. Le gocce continuavano sul piazzale e poi improvvisamente scomparivano, come se il ferito fosse salito su un’auto.

Mentre osservava quei piccoli indizi, che ai suoi occhi stavano a significare che il giorno prima c’era stata una sparatoria da far west, il suo cellulare vibrò.

Prese il telefono dal giubbotto di pelle e lesse il nome sul display. Era la sua ex moglie ed era la quinta volta che lo chiamava. Sapeva bene cosa voleva da lui… Probabilmente aveva scoperto che l’ultimo assegno era scoperto. Rifiutò la telefonata e si avvicinò a Pitti, che era immobile e con un’espressione di stupore sul viso.

«Cosa succede?», tuonò, guardando prima il commissario e poi l’agente dietro al laptop.

«Una cosa strana», balbettò Pitti grattandosi la testa.

«Cioè?»

«Questo computer è collegato in VPN alla Intranet della Galleria degli Uffizi. Da qui si può accedere, ad esempio, alla posta elettronica…». L’agente parlò con un tono di sufficienza.

«E la cosa strana qual è?»

«Cavalli Gigli ha appena inviato un’email dal suo account!», sentenziò Pitti.

Sforza sorrise. «Interessante. Se diamo per scontato che i morti non inviano email, sarebbe opportuno capire chi l’ha fatto per lui».

«Abbiamo appena spedito i dati ai tecnici informatici». Il commissario gesticolò con la mano come se stesse dirigendo il traffico.

«E cosa dice di interessante questa email?», chiese istintivamente Sforza.

«È un invito», proseguì l’agente. «Parole testuali: “Capodanno, alle 10 davanti alla Gioconda”».

«Interessante… E a chi è stata inviata?».

L’agente indugiò per un secondo e poi mosse il mouse: «A un certo Manuel Cassini».

Sforza annuì. In quel momento il suo cellulare squillò di nuovo. Lo estrasse e questa volta decise di rispondere: proveniva dall’ufficio di Lione.

«Pronto?»

«Nigel, ti disturbo?», era la voce di Fabien Bérot, uno degli agenti della Scientifica della sede centrale dell’Interpol.

«No, figurati», disse con tono ironico, sicuro che il giovane all’altro capo del telefono non avrebbe colto la sfumatura. Poi si spostò di colpo, come se avesse avuto un’intuizione improvvisa. Tornò accanto alla porta d’ingresso e osservò la fila di libri identici che aveva già notato in precedenza. Si trattava di una decina di copie del Segreto dei pittori maledetti.

«Sai quei reperti che mi sono arrivati dal Vaticano?», fece il suo collega al telefono. «Quello strano iPod e il microchip?».

Sforza si ricordò delle prove rinvenute ai Musei Vaticani. Aveva chiesto alla gendarmeria di mandarli a Lione.

«Non ho mai avuto davanti niente di simile…», continuò Bérot. «Devi vederlo con i tuoi occhi… roba da non credere!».

Sforza sembrò sorpreso, ma non da quanto aveva ascoltato al telefono, bensì dai libri sistemati sullo scaffale. Ne prese uno e osservò la copertina: vi era raffigurata la Primavera di Botticelli e sopra il titolo, in bianco, c’erano stampati i nomi degli autori. Si trattava del volume di cui aveva parlato con Cavalli Gigli… il libro che lo collegava a monsignor Claude de Beaumont. C’era però un terzo autore, a cui il soprintendente non aveva minimamente accennato: Manuel Cassini, l’uomo a cui qualcuno aveva appena mandato l’invito al Louvre per conto del soprintendente.

Mentre rifletteva, la comunicazione telefonica venne sostituita da una scarica elettrostatica. Era come un ta-ta-ta ritmico, simile all’interferenza di un cellulare. Poi la comunicazione cadde.

L’ispettore rimase immobile, con il telefono tra le dita. Si mordicchiò le labbra, incerto sul significato di quella email.

Dopo pochi secondi il telefono squillò di nuovo: «Nigel, ci sei ancora?». La voce metallica di Bérot irruppe nuovamente nei pensieri di Sforza. «Mi è morto il telefono. Scusa. Comunque questa è una cosa grossa… quando torni in ufficio?».

Sforza rifletté per un secondo. «Domani rientro a Lione. Passerò a trovarti».

La chiave di Dante
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