Capitolo 26
Parigi, 2 gennaio. 01:12.
Cassini si svegliò di soprassalto.
Era sdraiato sul letto della sua suite, ancora vestito e con la luce della abat-jour accesa. Scrutò l’orologio e si rese conto di aver dormito poco più di due ore. Dopo la cena con Sforza era andato dritto in camera, ma a causa delle preoccupazioni che monopolizzavano i suoi pensieri non era riuscito a addormentarsi immediatamente.
Era sempre stato un uomo razionale. Non si era mai allontanato dalla strada maestra che aveva faticato a costruirsi. Eppure era lì, convinto di aver ucciso un uomo che non vedeva da cinque anni.
Le parole dell’ispettore dell’Interpol continuavano a tormentarlo. Eccetto lui, tutti gli autori di quel libro erano morti. E anche la donna che aveva conosciuto era stata uccisa…
Non riusciva a interpretare tutte quelle informazioni e soprattutto non riusciva a capire che rapporto avessero con lui.
Dal colloquio con l’ispettore era emerso anche un altro dettaglio tutt’altro che insignificante: l’email che Cavalli Gigli gli aveva inviato era falsa, visto che era stata spedita dopo la sua morte.
Per quanto ci ripensasse, non riusciva a trovare una sola spiegazione ragionevole: quell’email poteva essere il tentativo di costruire un depistaggio per la polizia. Era possibile che se la fosse spedita da solo? Ma non ricordava neppure quello.
Cassini si mise seduto sul letto, pensieroso. Si accarezzò la barba di un giorno e poi scosse la testa.
Tutta quella vicenda era incredibile. Doveva cercare di saperne di più.
Osservò nuovamente l’orologio e poi, con uno scatto d’ira, prese il suo smartphone e richiamò un numero dalla rubrica.
Per un secondo indugiò, non convinto che fosse una buona idea premere il tasto “chiama”.
Si alzò di scatto, deciso ad andare alla finestra, dalla quale penetravano occasionali luci di fari.
E improvvisamente perse l’equilibrio.
Ondeggiò a destra e poi a sinistra, cercando di aggrapparsi al supporto del letto. Era come se la stanza si stesse muovendo.
A un tratto non era più nell’albergo, ma su un tram, sballottato nel traffico di una città.
Si guardò attorno spaesato. Era giorno, una fitta nebbia avvolgeva gli antichi palazzi che sfilavano veloci alla sua sinistra. A destra, invece, c’era un’inferriata, con alcuni motorini parcheggiati davanti e una balaustra che separava la strada dal marciapiede.
Poi udì il suono di un campanello, il tram rallentò e si fermò. Aprì le porte di fronte a una banchina e molte persone si diressero verso gli scalini. Anche lui fece lo stesso, ritrovandosi sul marciapiede. C’era un freddo così pungente da togliere il fiato.
La prima cosa che notò fu la strada lastricata con pietre rossicce e i due binari paralleli che correvano dritti a destra e a sinistra.
Quando il tram ripartì riuscì a scorgere il numero sulla fiancata: era il 18.
Poi alzò lo sguardo: dalla parte opposta c’era il sagrato di una chiesa, alcuni “panettoni” stradali lo dividevano dalla carreggiata. In fondo alla piazza si vedeva la facciata rossiccia di un duomo o di una cattedrale. Era a forma di capanna, con cinque campiture e alcuni rosoni circolari.
Non ne era certo, ma gli parve di trovarsi a Milano, di fronte alla basilica di Santa Maria delle Grazie.
Attraversò la strada e quando fu nei pressi del grande portone quattrocentesco cambiò direzione. Si voltò e andò verso la tribuna del Bramante, la struttura con una grande cupola che domina la piazza nella parte retrostante della chiesa.
Poi, come si era presentata, quella visione era scomparsa di colpo.
Cassini si ritrovò esattamente dove era stato negli ultimi secondi: sul tappeto della suite Imperiale, accanto al letto a baldacchino.
Chiuse gli occhi.
Credeva di aver superato la fase di quegli strani flashback, che lo avevano lasciato in pace per l’intero pomeriggio. Purtroppo si sbagliava.
Quell’ultima visione era stata forse meno nitida delle precedenti, meno coinvolgente… quasi fosse più lontana, più nascosta nel labirinto del suo cervello. Però era stata molto più completa e precisa.
Santa Maria delle Grazie.
C’era stato, in passato, ma non certo di recente.
Se non ricordava male, doveva averla visitata d’estate, in una mattinata estremamente calda.
Nel suo flashback invece era una giornata gelida, con la nebbia milanese tipicamente invernale.
A quel punto decise: il cellulare era ancora tra le sue dita, con la faccia sorridente di Angelo, suo cugino e medico, appena richiamata dalla memoria. Era un chirurgo plastico, certo, ma a chi altri avrebbe potuto chiedere spiegazioni su quanto gli stava accadendo?
Sfiorò la scritta “chiama” e attese.
Uno squillo. Due squilli. Tre squilli… Cinque squilli. Quando stava per riattaccare udì una voce assonnata.
«Pronto?»
«Ciao sono Manuel».