Capitolo 77
90 chilometri a nord-est di Reykjavik, 3 febbraio. 12:40.
La Toyota Hilux sobbalzò più volte sul ghiaccio e rallentò per affrontare la curva.
Manuel Cassini, sul sedile del passeggero, si sforzò di individuare una strada nella distesa bianca che scorreva davanti al parabrezza. Ma vedeva soltanto una pianura innevata delimitata da picchetti metallici.
Il cielo era una lavagna grigia che si perdeva oltre l’orizzonte in cumuli di nubi basse. Davanti a lui, un pick-up rosso, identico a quello su cui viaggiava, sembrò rallentare, ma poi aumentò nuovamente l’andatura.
Il convoglio si componeva in tutto di cinque veicoli, partiti poco dopo le otto di mattina da Reykjavik. La scelta di quel tipo di auto con ruote chiodate e verricelli era stata quasi obbligata, aveva spiegato Joonas Eklöf. Una volta giunti a Kjalvegur, a sud del ghiacciaio Langjökull, la strada si sarebbe trasformata in una lingua gelata, sconnessa e delimitata da paletti colorati.
La scelta del mese di febbraio era però stata obbligata, perché le condizioni dello sceicco si erano aggravate nell’ultimo mese.
Per Cassini era stato un periodo intenso. Era passato dall’hotel Ritz di Parigi fino al Burj Khalifa di Dubai, in un turbine di eventi che aveva potuto metabolizzare solo con il trascorrere del tempo.
Naturalmente non aveva dimenticato tutto il male che lo sceicco gli aveva fatto: gli esperimenti scientifici con il suo cervello, la droga, le menzogne e tutto ciò che l’aveva portato lì. Non l’aveva dimenticato e probabilmente non ci sarebbe mai riuscito.
Ma c’era solo una cosa più forte del rancore, la sete di conoscenza. E per quanto folli, le teorie di Al Husayn lo avevano stregato. Fin da Roma – quando era riuscito a individuare nella Primavera di Botticelli i triangoli astronomici – era stato catapultato in un ciclone di eventi che avevano risvegliato in lui sensazioni sopite da anni. Come l’eccitazione quando avevano individuato le coordinate della fonte in cui Dante si purifica.
E quella era la loro destinazione: le cascate di Gýgjarfoss, una landa sperduta nel nord dell’Islanda, dove nascono i fiumi Blákvísl e Jökulfall. Gli stessi che il poeta chiama Letè e l’Eunoè.
Nel mese trascorso a Dubai, per definire i dettagli dello scavo, richiedere i permessi e analizzare nuovamente i calcoli, erano però successe anche molte altre cose: la più importante riguardava Julia, seduta nella Toyota in testa al convoglio, quella davanti a lui.
La ragazza da cui era stato attratto a Roma e che poi si era trasformata in un mostro di pietra, con il passare dei giorni si era ammansita. Benché non vi fossero più stati contatti fisici, Cassini credeva di cominciare a capirla meglio.
Un grande aiuto, per decifrare la mappa di Julia – che per certi aspetti era stata più complicata di quella di Dante – gli era però venuto da Timothy Dempsey, il genio dell’informatica con i capelli rossi.
Il giovane, nelle settimane in cui Cassini era stato ospite volontario nella reggia di Al Husayn, era diventato un suo amico… o quantomeno ciò che c’era di più simile in una situazione come quella.
Era stato lui a raccontargli la storia di Julia, rapita da Bashar Al Husayn, addestrata alla guerriglia e violentata per anni. Dopo molte traversie, era stata salvata dal fratello del monarca, lo stesso Mohamed bin Saif che lui aveva conosciuto.
Per Dempsey, la ragazza non aveva mai superato le sofferenze patite in gioventù e quindi non era capace di dimostrare le sue emozioni. Eppure, dietro quella maschera, lui scorgeva un carattere dolce, sebbene incapace di emergere.
Cassini non sapeva se il giovane avesse ragione, ma sentita quella storia cominciò a guardare Julia con occhi diversi.
E adesso era lì, in compagnia di una dozzina di persone, in cerca di un tesoro al quale ormai credeva anche lui.
L’auto scattò di colpo a sinistra e il convoglio voltò verso nord. Il profilo del ghiacciaio, nero in più punti, incombeva su di loro come una gobba netta e marcata che si innalzava dalla pianura ammantata.
«Dovrebbe mancare una cinquantina di chilometri». La voce di Julia gracchiò attraverso la radio. «Per il mio autista ci vorranno ancora un paio d’ore».
Cassini fece un rapido calcolo. Secondo le tabelle che aveva consultato in albergo, il tramonto nel mese di febbraio alla loro latitudine era più o meno verso le diciassette. Ciò significava che al loro arrivo avrebbero avuto poco più di due ore di luce.
Le Toyota proseguirono spedite per un’ora abbondante. Il paesaggio era sempre uguale, distese piatte e candide da ogni parte. Un deserto bianco interrotto solo da spuntoni di roccia nera percosse dalle folate del baltico e che sembravano sfuggiti alle nevicate.
Improvvisamente il rumore persistente dei diesel fu sostituito da quello ritmico di un clacson.
Cassini vide la scena nello specchietto retrovisore molto prima del suo autista: uno dei pick-up dietro di loro, l’ultimo o il penultimo del convoglio, invece di affrontare una curva verso est come tutti gli altri, proseguì diritto.
Un cumulo di neve si innalzò come uno spruzzo d’acqua e improvvisamente il veicolo cominciò a strombazzare.
Un secondo dopo la sua auto si fermò dietro a quella di Julia. Il professore scese, stretto nelle spalle, e guardò indietro.
«È la Toyota con a bordo il principe», constatò Julia, avvicinatasi a Cassini con la valigetta del dispositivo in mano.
Il professore la osservò: le gote e il naso erano rosse e una ciocca di capelli biondi svolazzava sulla guancia.
«Stanno scendendo. Stanno bene», esclamò lei. «Si sono semplicemente impantanati».
In pochi minuti, l’auto più vicina fece inversione e con l’aiuto del verricello trainò la Hilux sulla sede stradale. Il convoglio ripartì quasi subito, ma nel frattempo era cominciato a cadere del nevischio.
Trascorsero altre due ore, che il professore aveva dedicato a riflettere: cosa avrebbe trovato alle cascate Gýgjarfoss, si era chiesto? Il riferimento geografico alla cascata era fondamentale. Tuttavia, dopo aver bevuto alla fonte, Dante ascende al Paradiso, un anfiteatro che il poeta paragona a una rosa, con un seggio su ogni petalo.
Quello era il vero punto d’arrivo del viaggio, ciò che avrebbero dovuto cercare… Cassini ci aveva pensato molto anche a Dubai e ormai si era convinto: nei pressi della cascata ci doveva essere qualcosa che avrebbe potuto assomigliare a un anfiteatro o, tuttalpiù, a un tempio, come sostenuto da Al Husayn. Non c’era altra spiegazione, proprio perché gli spostamenti di Dante nel Giardino dell’Eden si concludevano alle coordinate in cui si trovava la cascata.
«Ci siamo», lo distrasse Julia alla radio. «Quello che vedete là in fondo è il campo base».
Sulla sinistra, oltre un cumulo di neve e una roccia sporgente, cominciava a emergere dalla nebbia un agglomerato di veicoli bianchi.
Il professore si infilò gli occhiali polarizzati e, sul bordo del fiume congelato, individuò alcuni camper disposti a semicerchio. Un grande tendone grigio era teso nel mezzo e due imponenti parabole satellitari erano state posizionate poco distanti. C’erano anche un paio di veicoli e forse una moto, ma da quella distanza non riusciva a distinguerli con precisione.
«È ora di pappa! Ho una fame…», implorò dalla radio Dempsey, con il suo solito accento della costa ovest.
«Temo che il tuo stomaco dovrà aspettare», l’apostrofò Julia, netta. «La cascata è a circa un chilometro da qui! Ho chiesto a Eklöf di portarci subito lì, prima che faccia buio».
La lingua di ghiaccio bianco che chiamavano strada, in quel punto scendeva dolcemente e poi proseguiva diritta costeggiando il fiume Jökulfall: stavano raggiungendo la fonte da nord.
Proseguirono per qualche minuto, sobbalzando sulla neve e infine la Toyota Hilux si fermò in un grande spiazzo.
Erano in una sorta di terrazza naturale, piatta, innevata e affacciata su uno strapiombo di roccia lavica.
La cascata era davanti a loro: un cocktail di spuntoni neri acuminati e frastagliati, era ghiacciata e immobile come in un’istantanea.
Cassini scese dall’auto, ansimando per l’emozione, e si guardò intorno. Gli bastarono pochi attimi perché un’espressione di delusione si dipingesse sul suo volto.
Si sarebbe aspettato una cascata incastonata in un anfiteatro naturale, la candida rosa, o almeno qualcosa che ricordasse il Secondo Tempio di Salomone.
In quella distesa desolata battuta da un vento gelido, non c’era invece nulla di tutto ciò.