Capitolo 28
Parigi, 2 gennaio. 01:15.
«Pronto?»
«Ciao sono Manuel». Il professore era immobile, con il cellulare in mano, tra il letto a baldacchino della sua suite e una delle finestre. «Dormivi, cugino?».
All’altro capo del telefono ci fu una lunga pausa. Poi una donna borbottò qualcosa, infine la voce di Angelo tornò: «Manuel… ma lo sai che ora è?»
«Scusami Angelo, ma mi sento male… non sapevo chi chiamare».
L’uomo sembrò rianimarsi improvvisamente. «Dove sei? Che cos’hai?».
Non si vedevano spesso, negli ultimi tempi si sentivano quasi esclusivamente via Facebook, tuttavia erano sempre stati molto legati. Rappresentavano uno dei pochi casi in cui la lontananza geografica non aveva inciso sul loro rapporto.
«Sono a Parigi. Volevo chiederti un consulto… se così possiamo dire…».
«Che tipo di consulto?»
«Mi capita di avere delle strane visioni…». Cassini indugiò, indeciso sul modo migliore di spiegare quanto gli stava accadendo. «Non so neppure io come definirle… sembrano quasi dei ricordi che appaiono improvvisamente. Fatti o luoghi che però io non rammento di aver mai visto».
«Continua…».
«Tutto è cominciato questa mattina. Sospetto di essere stato drogato… Cosa sai dei ricordi? Mi spieghi come funzionano? È possibile che io soffra di una qualche forma di amnesia e che abbia fatto cose che riemergono poco alla volta?». In quel momento la sua mente andò alla pistola e a Cavalli Gigli che si tamponava il collo. Era un ricordo estremamente nitido.
Angelo rimase in silenzio. «Mah… su due piedi ti posso dire che le esperienze che viviamo ogni giorno vengono immagazzinate e memorizzate grazie ai circuiti del giro ippocampale, nel lobo temporale».
«Cerca di essere meno tecnico…».
«Si tratta di informazioni che vengono lateralizzate, registrate negli emisferi cerebrali. I ricordi non sono altro che il reclutamento, il richiamo, di queste varie informazioni che sono salvate, per usare un gergo informatico, all’interno dei tuoi neuroni».
«Quindi un ricordo rappresenta necessariamente qualcosa che ho fatto e visto?»
«Non è facile rispondere…». Angelo si schiarì la voce e poi si udì un rumore di passi, come se il cugino si fosse alzato dal letto per allontanarsi da qualcuno che stava dormendo. «Pensa per esempio a cosa hai mangiato a colazione questa mattina. Immediatamente nella tua mente compare l’immagine del cappuccino e del cornetto, dei loro odori, del loro sapore. È una tempesta elettrica di scariche nelle sinapsi che genera i ricordi».
«Ma se rivedo una faccia, una chiesa o un quadro… li ho necessariamente visti davvero, o possono essere stati generati, che so, dalla mia fantasia o dall’effetto della droga?»
«La droga può alterare le nostre percezioni. Un’altra spiegazione potrebbe essere un disturbo post-traumatico da stress, tipico di chi torna dalla guerra, per intenderci. Ma in linea di massima sei tu che devi saper distinguere se si tratta di un ricordo, di un evento realmente vissuto, oppure di qualcosa di diverso…».
Cassini non rispose.
«Sei tu che devi saper capire la differenza… Esattamente come percepisci la differenza tra questa telefonata e un sogno. Quando ti svegli, se escludiamo qualche normale attimo di appannamento, sai che hai appena fatto un sogno… non ti viene il dubbio di averlo vissuto veramente».
«Non sono delle allucinazioni! Questi sono dei ricordi veri e propri…», commentò Cassini.
«Manuel, non ti spaventare… però appena torni forse è il caso che ci vediamo. Ho un caro amico… è uno dei migliori neurologi dell’ospedale…».
«Non sono malato, Angelo. Qualcuno mi ha drogato e mi ha fatto fare cose che non riesco né a spiegarmi… né a ricordare. Però mi stanno tornando in mente poco alla volta…».
Angelo indugiò per un istante. «Non vorrei insistere ma…».
«Quindi dici che se io li identifico come ricordi… Se io so che sono ricordi…», lo interruppe Cassini, «allora sono necessariamente ricordi? Sono cose che ho fatto… ma che non riesco a recuperare?»
«Manuel, ho smesso di seguirti. Personalmente non so cosa si prova sotto l’effetto della droga ma se tu dici di essere sicuro che si tratta di un ricordo…».
Cassini si massaggiò la tempia e chiuse gli occhi. Angelo aveva ragione, adesso ne era certo. Non aveva idea di cosa fosse ciò che vedeva, ma di certo aveva idea di cosa fosse un ricordo. Come aveva esattamente in mente il foie gras e la salsa di cipolle della cena, allo stesso modo ricordava la pistola, la corsa in auto e la facciata di Santa Maria delle Grazie.
«Grazie Angelo. Scusa il disturbo. Mi sei stato di grande aiuto».
Cassini chiuse la telefonata liquidando il cugino, evidentemente allarmato, e cercò un biglietto da visita nei pantaloni. Lo prese in mano e compose il numero.
«Già m’avean trasportato i lenti passi dentro a la selva antica», mormorò tra sé, «tanto, ch’io non potea rivedere ond’io mi ’ntrassi». Esattamente come Dante, anche lui si era spinto fin troppo avanti in quel labirinto di ricordi, di illazioni e di flashback… e non vedeva nessuna via d’uscita.
Solo una persona sembrava saperne più di lui…
All’altro capo del telefono, nonostante la tarda ora, la voce fu squillante.
«Pronto? Ispettore Sforza… sono Manuel Cassini. Ho bisogno di parlarle… credo di essere io l’assassino di Andrea Cavalli Gigli».