Capitolo 65

 

 

 

 

 

 

Buio. Solo il respiro.

Poi, all’improvviso, una scritta fluttuante, sospesa nell’aria, come se fosse appesa a un vetro invisibile: MARKER 4048.

Infine una luce giallognola.

Era lungo un’autostrada, di notte, a bordo di un’auto ferma.

Il potente motore scalpitava alle sue spalle. Oltre il parabrezza, quattro corsie illuminate da lampioni alti come palazzi.

I suoi occhi nocciola, contornati di mascara, comparvero nello specchietto retrovisore.

«Amore mio… adesso ci divertiamo».

Si allacciò la cintura e osservò il montante centrale dell’auto. Sul display c’era uno scudo dorato che raffigurava un toro. Tutto intorno, una costellazione di pulsanti e manopole, disposte ordinatamente su un pianale metallico rosso.

Si sistemò i guanti da guida e poi premette con decisione sull’acceleratore. Il pedale affondò con sorprendente facilità, sembrava una tavoletta appoggiata su un soffice cuscino.

Marker 4049.

La tonnellata e mezza dell’auto si mosse, aumentando progressivamente la velocità e inghiottendo l’asfalto con una potenza inaudita.

Più accelerava, più la forza d’inerzia la schiacciava sul sedile di pelle.

La trazione integrale teneva il bolide incollato alla strada e il motore V12 urlava rabbioso.

Lo skyline di Dubai si faceva sempre più piccolo, lontano, con i grattacieli che sembravano sprofondare come una nave all’orizzonte.

Osservò il tachimetro: 190. 220. 250.

L’autostrada piegava a destra, allontanandosi dal golfo e immettendosi nel deserto nero della notte.

Marker 4050.

Osservò davanti a sé. C’era una grossa limousine che si avvicinava lenta e inesorabile.

Premette delicatamente sul pedale del freno e il cambio robotizzato cominciò a scalare le marce. I giri del motore schizzarono in alto e il rombo aumentò.

Scartò a sinistra, di colpo, e si immise nella corsia di sorpasso. Superò l’auto con una facilità disarmante.

In pochi istanti divenne un puntino luccicante negli specchietti retrovisori.

Poi premette di nuovo sull’acceleratore e i settecento cavalli della Lamborghini ricominciarono a lavorare all’unisono, in una sinfonia di cilindri, valvole e pistoni.

Per un istante staccò le mani dal volante.

La lancetta bianca e rossa sul tachimetro indicava 280. 310. 340.

Sarebbe bastato un sasso sull’asfalto per farla sbandare.

Adrenalina.

Paura.

Poi, improvvisamente, rimise le mani sullo sterzo e alzò il piede. Lentamente rallentò.

Marker 4051.

 

Mohamed bin Saif Al Husayn aprì gli occhi nel suo laboratorio di Dubai.

A differenza delle altre impressioni che aveva rivissuto nei giorni precedenti, per richiamare l’ultima non aveva avuto bisogno di nessun file e nessun dispositivo.

Era lì, latente nel suo cervello, catalogata ordinatamente tra tutti i suoi ricordi a lungo termine.

Ed era diventata un ricordo a tutti gli effetti.

Quella corsa in auto era stata il primo esperimento di impressione su biosupporto.

E il biosupporto era il cervello di Meredith…

Poco prima di correre in auto, la moglie aveva azionato il dispositivo. Ma quella volta, invece di iniziare a monitorare le reazioni chimiche nell’apparato neurale, si era limitato a imprimere nell’esperienza un marker.

Si trattava di una specie di segnalibro digitale. Un punto di riferimento informatico che avrebbe poi consentito, nella fase successiva, di individuare direttamente le cellule interessate da quell’esperienza e di esportarne il ricordo.

In assenza di quel marker, con cento miliardi di neuroni impegnati a catalogare le esperienze di ciascuno, sarebbe stato impossibile ripescarle. Il vantaggio di quella tecnica era evidente: le informazioni così catalogate entravano a far parte a tutti gli effetti del bagaglio di conoscenze del soggetto ricevente, imprimendosi stabilmente nella memoria a lungo termine.

La differenza con la tecnica basata sulla memorizzazione tramite il supporto a ultrasuoni, pur utilizzando i medesimi microchip, era abissale. Mentre quella, con un’alterazione temporanea delle sinapsi coinvolte, andava a incidere sulla memoria primaria, o a breve termine, il biosupporto no: agiva su quella più profonda, in grado di recuperare nozioni vecchie di decenni.

La prima rendeva l’esperienza vivida, attuale, come se fosse vissuta in quell’istante; la seconda riversava semplicemente la conoscenza da una cellula cerebrale a un’altra. Con l’unico dettaglio che l’altra si trovava in un cervello diverso.

Quello che per alcuni aspetti poteva essere un vantaggio, per altri era però anche uno svantaggio: a differenza di quanto accadeva con il supporto a ultrasuoni – la cui registrazione poteva essere rivissuta con la stessa intensità decine di volte – con il biosupporto non c’era modo di rivedere l’esperienza più volte. Il ricordo veniva semplicemente spostato, cellula per cellula con l’aiuto dei marker, da una mente a un’altra.

L’unico modo di riviverlo era ricordare.

 

La porta scorrevole del laboratorio si aprì e la figura sinuosa di Julia entrò silenziosamente.

Era la mattina del cinque gennaio e l’aereo privato era arrivato a Dubai da poco più di tre ore.

«Grazie», gracchiò il sintetizzatore vocale dello sceicco. I suoi occhi erano fissi sul grande display OLED, in cui si vedevano i due fiumi islandesi ripresi da un satellite geostazionario.

Aveva un viso stanco, la mandibola serrata e gli occhi sempre più scavati. Sembrava invecchiato di dieci anni in meno di una settimana.

«Ho fatto quello che ho potuto», si schernì lei. «Speriamo che serva».

Yukiko Nakamichi, uno dei neuroscienziati alle dipendenze dello sceicco, si avvicinò ai due con un tablet bianco tra le dita. Attese qualche istante prima di parlare, poi si decise: «La TAC è negativa. Gli altri esami saranno pronti nel giro di un paio d’ore».

«Bene», sibilò lui. «Il ragazzo ha smaltito l’effetto del sedativo?».

Julia si schiarì la voce. «Non del tutto. Riesce a parlare ma non può ancora muoversi».

“Almeno sa cosa si prova”, rifletté Al Husayn. «Ok. Quindi abbiamo due ore per fare conoscenza».

La chiave di Dante
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