Capitolo 32
Lione, 2 gennaio. 11:01.
L’elfo della notte, protetto da un’armatura di pelle, si fermò sul crinale ed estrasse il suo pugnale. Smontò dalla saber, il fedele felino con denti a sciabola che aveva cavalcato fino a quel punto, e proseguì a piedi. Ancora pochi passi e sarebbe arrivato al fiume: il quarantunesimo livello era ormai a un passo. Ma non aveva considerato il guerriero goblin che gli si parò davanti: l’effetto sorpresa fu determinante.
Fabien Bérot cercò di far spostare il suo avatar, ma l’avversario non si lasciò ingannare e colpì ripetutamente con la sua ascia. Uno, due, tre colpi andarono a bersaglio. L’indicatore sulla destra dello schermo scese vertiginosamente.
Il druido di Bérot indietreggio ma non fu sufficiente. Ormai aveva perso troppa “vita”. Il goblin lo braccò facendo roteare l’ascia, finché non riuscì a mettere a segno il colpo decisivo. L’elfo della notte barcollò e poi cadde inesorabilmente sulla radura.
Fabien sbuffò e osservò sconsolato il monitor piatto del computer del laboratorio. Quella partita di World of Warcraft, il suo gioco online preferito, prometteva bene. Negli anni aveva raggiunto l’ultimo livello più volte, talvolta impersonando uno gnomo, talvolta un umano, qualche altra un orco. Nell’ultima settimana aveva provato a condurre il gioco con un elfo della notte di classe druido. Ma la sua sfortuna continuava a inseguirlo…
Si era convinto che negli ultimi giorni la iella lo perseguitasse in ogni modo: per esempio facendo morire troppo presto i suoi avatar in World of Warcraft, oppure bruciando i suoi costosi giocattoli elettronici… E due eventi di quel tipo in una settimana erano decisamente troppi.
Alzò lo sguardo dalla tastiera e si sgranchì le gambe sotto la scrivania.
Quella mattina, nella sede dell’Interpol, non c’era quasi nessuno e la prova era che il telefono non aveva mai squillato. Come se non bastasse aveva poco da fare: ultimato il rapporto sui reperti del Vaticano non gli restava che ammazzare il tempo giocando ai videogame.
Chiuse Firefox e lo sguardo gli cadde sul suo nuovissimo smartphone Next M2. Era lì, accanto al computer, “morto” come l’elfo della notte di World of Warcraft. Aveva il display touchscreen bruciato e rifiutava di accendersi. Era accaduto pochi giorni prima… ricordava persino le ultime parole che era riuscito a pronunciare nel microfono: «Devi vederlo con i tuoi occhi… roba da non credere», aveva detto a Sforza.
Roba da non credere.
Da non credere era che il suo telefono nuovo si fosse fuso in quel modo…
Bérot aprì il cassetto della scrivania ed estrasse un kit di cacciaviti Torx: se lo doveva buttare, tanto valeva smontarlo per vedere se poteva rivendere qualche pezzo su eBay.
Svitò la scocca d’alluminio e la rimosse. Quando vide i componenti però, rimase di stucco: erano completamente carbonizzati, dal primo all’ultimo.
Per un istante osservò incredulo il cellulare: non aveva mai visto nulla di simile. Era come se…
Improvvisamente ebbe un’illuminazione e corse nell’altra sala, quella in cui era posizionato il microscopio a forza atomica. Quando il telefono aveva smesso di funzionare lui si trovava proprio lì. Ricordava che mentre parlava con Sforza stava osservando le immagini dei due microchip trasparenti sullo schermo.
Oltre a quel microscopio, nel laboratorio c’era anche un piccolo magnetometro a protoni: un recipiente riempito di idrocarburi e avvolto da un solenoide. Non gli serviva per le indagini dell’Interpol ma per una delle sue mille passioni: si divertiva a misurare le variazioni del campo geomagnetico della Terra.
Si avvicinò al terminale e richiamò le misurazioni magnetiche registrate il ventisette dicembre, il giorno in cui il cellulare si era danneggiato.
Mentre il computer caricava il file, rifletté: una fusione dei circuiti come quella del Next non era certamente causata da un difetto di fabbrica del telefono. Però poteva essere stata generata da una forte variazione di campo…
Il video si riempì di tabelle e grafici colorati.
Bérot fece scorrere a una a una le immagini e rimase folgorato… Controllò di nuovo, non convinto. Verificò le tabelle di qualche giorno prima, dall’arrivo dei due dispositivi fino a quella mattina. Quando fu certo di ciò che aveva scoperto si alzò in piedi…
Era impossibile… eppure era accaduto.
Dove aveva letto qualcosa di simile?
Cercò di riflettere.
Tornò nell’ufficio principale e si sedette alla sua postazione. Digitò le lettere R N M nel motore di ricerca e attese.
Lesse i risultati con calma, e infine trovò l’articolo che cercava. Ricordava di averlo già visto in passato: era l’intervista a un ingegnere americano, il fondatore di una società che si chiamava Solidweb.
Subito dopo si collegò all’indirizzo internet della start up. Trovò molte spiegazioni tecniche e anche alcuni video dimostrativi su YouTube. La cosa più interessante, però, era che si trattava di progetti e di prodotti che ancora non esistevano… almeno ufficialmente.
Spense il monitor e tornò nel locale attiguo: se quei chip servivano davvero a ciò che pensava, doveva capire come funzionavano. Si posizionò davanti al microscopio e lo accese.
Per un istante rimase immobile, incredulo. Poi fece il giro, per verificare con i suoi occhi. Aprì la piattaforma di osservazione, un cilindro di vetro poco più grande di un boccale di birra, ed ebbe la conferma: i microchip erano scomparsi.