Capitolo 84
Lago Hvitar, 25 chilometri a sud-ovest del campo base, 6 febbraio. Ora locale 04:58.
Il Toro fermò la sua Jeep nei pressi di una pozza in cui ribollivano acque sulfuree illuminate dalla luna piena. Oltre il lago, nell’oscurità, si riusciva a distinguere la sagoma del ghiacciaio sdraiato sotto un cielo stellato.
La strada, che in quel punto si biforcava, era completamente gelata. Prima di scendere dal veicolo si assicurò che le coordinate fossero corrette. Poi prese la pistola con il silenziatore dal cassettino e si avviò a piedi lungo un sentiero completamente innevato.
Mentre camminava nell’oscurità, affondando gli scarponi nella neve fresca, rifletteva sulla telefonata ricevuta poche ore prima. «I programmi sono cambiati. Devi gestire la cosa direttamente», gli aveva ordinato il Gran Maestro, poco dopo aver parlato con Roma.
E gestire “la cosa” significava che non poteva più restare nell’ombra. Non sarebbe più stato sufficiente attendere che la spedizione effettuasse lo scavo, per poi intervenire se avessero portato alla luce i papiri. Serviva molto di più: coordinare le ricerche di persona, affinché la campagna avesse successo.
Era cosciente che per un uomo come lui, senza una particolare preparazione in materia di archeologia, non sarebbe stato affatto semplice. D’altra parte, i tempi così stretti non gli lasciavano alternativa.
Per gli aspetti operativi, sapeva di poter contare sull’esperienza di Joonas Eklöf, il capo spedizione. Purtroppo, però, c’erano questioni che il finlandese non poteva affrontare; la principale era convincere i tecnici, gli archeologi e gli operai a rispondere a lui invece che a Julia e Cassini.
Appena ricevuto l’ordine, aveva pensato semplicemente di toglierli di mezzo. Poi, però, aveva riflettuto sull’utilità di entrambi: il professore era l’unico che aveva conoscenze dirette dei versi di Dante; la donna, invece, faceva le veci dello sceicco, il committente di tutta l’operazione. Eliminarla poteva creare incertezza e paura negli uomini che poi avrebbero dovuto lavorare ai suoi ordini.
La scelta più razionale era tenerli in vita e obbligarli a collaborare, prendendo il loro posto al comando. Sarebbe stato molto difficile, a meno che non avesse fornito loro il giusto stimolo…
Raggiunto un cartello stradale con la scritta HVíTáRVATN, si guardò intorno: davanti a lui c’era un edificio isolato, basso, tozzo e con due semplici finestre. Poco oltre si apriva la distesa ghiacciata del lago e dalla parte opposta, verso la strada, una pianura luccicante nel buio.
Il Toro affondò le mani nel giaccone per difendersi dal freddo e batté ripetutamente gli scarponi per terra. Non era contento di doversi affidare a perfetti sconosciuti, ma le circostanze non gli avevano lasciato altra scelta.
Mentre con lo sguardo cercava di individuare qualche movimento nella distesa, da oltre un crinale comparvero i fari di due auto: si stavano avvicinando, sobbalzando sulla neve.
In pochi secondi, le due Toyota Land Cruiser percorsero l’ultimo tratto di strada e parcheggiarono sullo spiazzo su cui li attendeva il Toro. Gli puntarono addosso i fari e poi spensero il motore.
Un omaccione biondo scese da una delle auto, si mise a tracolla un fucile d’assalto M4 e si avvicinò. «Otto uomini in tutto, come aveva chiesto», grugnì, inspirando l’aria fredda della notte con il naso.
Il Toro annuì. «È a circa un’ora da qui. Venga, le mostro la mappa».